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Interviste

Controllo e visione, perché il nuovo che avanza è velocissimo

Controllo e visione, perché il nuovo che avanza è velocissimo

In questa conversazione con il presidente del CNEL, Tiziano Treu, si discute della transizione digitale e del suo impatto sul lavoro e sulla formazione.

  Caro Presidente, parliamo di civiltà digitale, di Intelligenza artificiale. Che opinione si è fatto su questa dimensione?


Tanto per iniziare dico subito che sono rimasto colpito - e non voglio aprire una pagina politica perché non è questo il caso - dal fatto che si stiano raccogliendo in modo digitale le firme per il referendum sul tema del fine vita. Questo vuol dire la fine dei banchetti e forse anche la fine della partecipazione politica come siamo stati abituati finora a viverla. Chissà, magari è anche la fine della formazione della classe dirigente che passava attraverso anche queste forme di politica popolare. In realtà il digitale è un passaggio che cambierà tante prassi così come le relazioni tra le persone e i saperi e quindi e cambierà anche le istituzioni.




Il presidente del Cnel avrà sicuramente a cuore il tema della formazione dei lavoratori: che impatto potrebbe avere la transizione digitale sul lavoro e sulla formazione dei lavoratori? A noi interessa perché dobbiamo capire quali sono i profili che sui quali dovremo fare formazione. Ma quale potrebbe essere la destinazione? Verso che tipo di società stiamo andando e soprattutto verso che tipo di mercato del lavoro e di economia stiamo andando? Come lo vedete voi del Cnel e quali strategie state mettendo in campo per provare a dare una risposta?


Non c'è dubbio che questo sia il quarto salto tecnologico, ancora più grande e profondo dei precedenti, dicono gli esperti. Cos'ha di diverso la Rivoluzione 4.0? Anzitutto più velocità nella diffusione tecnologica. L'impatto sul lavoro è molto più diffusivo. Altre tecnologie ci avevano messo tempo per impattare sui settori e sui divari. In questo caso c'è una capacità di diffusione e di estensione superiore al passato. Si può fare un paragone con la stessa capacità di diffondere il virus del Covid. Vi è anche una forte penetrazione nei rapporti umani; come è accaduto con la macchina a vapore, quando milioni contadini si sono accumulati progressivamente dentro le fabbriche e le città.


Ma ora abbiamo davanti il mondo. Ormai un terzo del lavoro digitale è transnazionale. Un terzo è un dato enorme! Il tema della distanza – il tema geografico - è fondamentale. Le piattaforme hanno un modo diverso da quello tradizionale di gestire il lavoro a distanza. Inoltre ci domandavano: è un lavoro autonomo o dipendente? È libero o schiavizzato?


Per di più vediamo che il lavoro digitale - con l'Intelligenza artificiale – è applicato anche ai meccanismi decisionali delle aziende con esiti stravolgenti. Le piattaforme, gli algoritmi, le macchine intelligenti - chiamatele come volete - ormai non riguardano più solo l'organizzazione del lavoro dei ciclo-fattorini, ma la gran parte delle funzioni di tutte le aziende.  I principali atti di gestione, dall'assunzione, alle promozioni ecc. possono essere decise da un algoritmo e non dall'addetto alle relazioni del personale. Si decidono gli standard, e le regole, sulla base degli input dati agli algoritmi che applicano e producono indicazioni su vari atti di gestione, per esempio sui turni di lavoro. Queste macchine intelligenti sostituiscono i capireparto umani.  


Ma tali decisioni seguono procedure trasparenti? Non si sa. Infatti una delle proposte della Commissione europea e dei sindacati che hanno concluso con le imprese un accordo europeo, prevede che siano chiariti i criteri con cui si scelgono gli input alle macchine. Poi queste imparano da sole e possono decidere autonomamente. Il rischio - dichiarato dagli stessi programmatori - è che si rischia di non riuscire a controllare le decisioni così programmate. 


Io spero non sia proprio così, perché saremmo davanti a una sorta di “nuovo Frankenstein”. Dunque serve un cambiamento non solo tecnico. Dobbiamo imporre il principio fondamentale per cui a decidere e a controllare restano ancora gli uomini.  In gioco non c'è solo il lavoro ma i principi fondamentali dell’agire umano.


Comunque, venendo più vicino al mercato del lavoro e alla formazione è incerto quale sia l'impatto del digitale sulla quantità del lavoro futuro, come attestano le indicazioni dell'Ocse. Ultimamente i pessimisti sono meno numerosi, perché in questi ultimi anni, dove le nuove tecnologie sono state già operative, non ci sono stati abbattimenti drastici della quantità di lavoro. Non sembra vero che le tecnologie uccidano centinaia di milioni di posti di lavoro senza che l'innovazione compensi i posti persi. 


Vi è invece un impatto molto forte sulla qualità del lavoro. Mentre il quadro del mercato del lavoro negli anni del secolo scorso era relativamente stabile - o comunque cambiava ogni dieci anni -  ora rischiamo di avere  cambiamenti vorticosi  delle competenze richieste ai lavoratori, e anche dei prodotti delle aziende. 


Stamattina al Cnel c'erano alcuni rappresentanti dell'automotive: questo è un settore dove molto sta cambiando con gravi conseguenze per l'indotto che c'è intorno. Cambieranno le skill; cambieranno a seconda dei settori, perché alcuni saranno più veloci di altri ad adeguarsi, ma certamente tutti i mercati saranno in transizione. In questi mercati transizionali la formazione continua sarà fondamentale. Tra le imprese che crescono e i settori in declino servirà un riequilibrio continuo, un mix di competenze. 


L'Action plan del Pilastro europeo dei diritti sociali prevede obiettivi – per noi – lunari: un tasso di occupazione al 78% quando noi siamo fermi da 15 anni al 58% degli uomini, e le donne sono in una condizione ancora peggiore. Come facciamo ad aumentare di 20 punti in circa dieci anni? 


Un secondo obiettivo prevede il 60% di tutti i lavoratori adulti in formazione ogni anno. Questo significa che, su una popolazione di 22 milioni di lavoratori italiani, la formazione continua dovrebbe riguardare 12 o 13 milioni di persone. Capirete che grande lavoro serve, in termini di quantità e di qualità. 


Non è facile da prevedere come cambieranno le professioni e quindi che tipo di formazione servirà. I lavori cambiano velocemente; mentre una volta – per dire – negli Stati Uniti facevano le previsioni sulle professioni richieste a 5 anni, ora ciò non è più possibile. In Italia si raccolgono le dichiarazioni delle imprese su quali professioni pensano di necessitare nei prossimi 2-3 anni (non di più). È un modo indiretto di valutare le tendenze. In ogni caso la quantità di persone in formazione sarà senza precedenti. Quindi occorrono istituzioni formative nuove perchè quelle esistenti al momento non sono in grado di rispondere a questo bisogno.


Certo, ci vorrà “più digitale”. Però è anche vero che non basterà. Le basic skill, le character skill e le soft skills saranno importanti: bisogna rafforzare le competenze di problem solving, quelle relazionali. Servirà un modello formativo ibrido, e poi soprattutto, occorrerà imparare ad imparare.




Grazie Presidente per l'affresco che ci ha dato: sicuramente viviamo una fase molto complessa di transizione. Una riflessione che sorge spontanea riguarda il tema della formazione degli adulti. Oltre a mettere in campo le cose che Lei ha esposto e che noi misuriamo tutti i giorni sul campo, dobbiamo affrontare anche la gestione di alcune ristrutturazioni aziendali complesse: come affrontarle sul piano della formazione degli adulti? Le risorse attualmente sono molto scarse, di difficile fruizione. Soprattutto nel nostro Paese non c'è ancora un piano organico e scadenzato per mettere a tema le cose che Lei coglieva. Siamo passati da una condizione dove si gestivano alcune centinaia di corsi serali per gli adulti finanziati in un quadro dove il capitolo di spesa è sostanzialmente uguale a zero. Quindi per fare un'operazione di questo tipo bisognerebbe innanzitutto passare da una riprogrammazione su larghissima scala. Forse bisognerebbe provare ad immaginare processi di formazione di massa, perché il tema del digitale sulla fascia di popolazione in età adulta è quello su cui si registrano i ritardi maggiori. Peraltro il tema non riguarda solo un problema occupazionale o della ricollocazione, ma chiama in causa la qualità della cittadinanza: la popolazione adulta e quella anziana fuori dal mercato del lavoro registrano una difficoltà all'approccio sui temi della cittadinanza digitale. Servono delle competenze digitali di base perché - si pensi alla raccolta di firme sui referendum o all'uso dello Spid per l'accesso ai servizi pubblici - ci misureremo tutti i giorni con queste tecnologie. Qui però manca un piano nazionale di intervento organico. È un compito pubblico, sono obiettivi di massa. È come 60 anni fa con l'alfabetizzazione del Paese, cioè il salto che fu fatto per alfabetizzare l'Italia nell'immediato dopo guerra, ora è ancora un compito pubblico enorme: adesso dobbiamo fare l'alfabetizzazione digitale. Poi c'è il compito delle competenze e delle nuove skill immediatamente utili e specificatamente utili per le imprese. Lì le imprese dovranno organizzarsi perché non basterà più fare formazione solo per i ruoli apicali o solo quando era del tutto necessario. Se non si investe nelle nuove skill e non si innovano i metodi produttivi, l'impresa rischia di morire.


Probabilmente questa formazione permanente dovrebbe degli adulti dovrebbe diventare un pezzo del PNRR. Per ora la formazione permanente ha riguardato alcune scuole aziendali, dei master rivolti all'area manageriale o all'area della post laurea. Quindi bisognerebbe vedere di stanziare e strutturare un rapporto tra pubblico e privato, al di là degli ITS.


Serve un'innovazione sia nell'organizzazione dei servizi pubblici sia a livello di contenuto per le diverse filiere produttive e di servizi: filoni didattici innovativi sui quali lavorare. Altrimenti rischieremo la riproposizione dei moti contro le macchine che automatizzano! Io ricordo chi diceva che, per esempio, la firma digitale con lo Spid avrebbe messo in difficoltà non solo gli over 65 anche ma tutta la generazione che dai 40 anni in su. Tutti i grandi cambiamenti negli anni Settanta - dal modello meccanico al modello dell'automazione e al sistema di macchine programmate - oggi noi siamo a un salto ulteriore. Questo è un passaggio fondamentale. Allora o s'arrangiano le aziende - però riguardano solo il personale sulle quali esse fanno ciclicamente riqualificazione e aggiornamento professionale che spesso avviene quando  si introduce un nuovo sistema informatico – oppure le Regioni diventano i soggetti ai quali fare delle proposte, dei moduli trasversali, non settoriali (la metalmeccanica, la logistica ecc.).


Infine un altro paio di rilanci su un tema ad ampio spettro. Il primo è che se questa trasformazione sta cambiando le modalità di produzione, allora lo sta facendo in un modo che rischia di sbilanciare anche la concentrazione e la distribuzione di ricchezza: come facciamo a cercare di intervenire su questo fenomeno? Cosa rischiamo? L'altro rilancio concerne una delle aree che a noi sta più a cuore: lo svantaggio, quella delle categorie più deboli della società da un punto di vista di occupabilità e di professione. Siamo d'accordo che servono le skill, e qui entra in gioco la formazione: ma alcune persone che non hanno quelle competenze fanno comunque molta fatica a svilupparle. Cosa si può fare? Non so se Lei ha una visione di speranza da condividere...




Non c'è dubbio, uno dei problemi della rivoluzione in corso è che tendenzialmente allarga le diseguaglianze e polarizza il mercato del lavoro. La formazione – soprattutto se innovativa e ugualitaria - è un elemento che contrasta le peggiori derive. Ma non basta. Serve che anche il tipo di sviluppo sia meno distorsivo di quanto è accaduto finora. Le indicazioni che provengono dai Piani europei sono chiare: sostenibilità vuol dire che l’azienda dovrà puntare di meno sul profitto a breve termine di più sulla responsabilità sociale. La sostenibilità sociale è importante tanto quanto la sostenibilità ambientale. 


Joseph Stiglitz e altri economisti si stanno impegnando per trovare le vie d'uscita. Tra l'altro bisognerebbe discutere della stessa struttura del capitale e della programmazione societaria. Tornando alle politiche formative, si citavano come esempi del passato l'alfabetizzazione nel Dopoguerra e le “150 ore”. Sono esempi pratici di politiche che possono essere messe in campo anche oggi. 


Magari non risolvono il problema, ma vanno nella direzione di affrontare questo problema. Le politiche europee hanno un sistema di scoreboard, cioè di misurazione continua rispetto agli obiettivi, e questo è necessario per vedere se siamo nella direzione giusta. 


Comunque è certo che noi investiamo poco in formazione, nonostante l'avvento del digitale. I Paesi del centro-nord d'Europa lo fanno meglio. Non occorre inventare chissà quali cose, basta copiare le pratiche dei più “bravi”. Anche questi Paesi hanno dei problemi a fronteggiare le implicazioni delle novità in corso, per quanto riguarda la disuguaglianza. Basta leggere l'indice di Gini per osservare che l'Italia sta andando nella direzione negativa degli Stati Uniti: un abisso rispetto al percorso della Svezia o della Danimarca, che negli ultimi 40-50 anni hanno attuato politiche di welfare, di innovazione equidistribuita, investimenti a lungo termine e non “di rapina”, nonché una serie positiva di politiche sociali. 


È un modello che non si improvvisa. Va costruito a cominciare dalle politiche attive, di cui ora c’è sempre più necessità, per non far “morire” centinaia di migliaia di lavoratori di settori in declino. Ci si mette anni a far partire un modello positivo. Quindi se cominciamo adesso, e spero di sì, nel tempo previsto dal PNRR, ossia cinque anni, possiamo farcela ma dobbiamo abbandonare le politiche-spot, fare le riforme necessarie e implementarle con delle vere e proprie istituzioni, in questo caso formative, e legate ai servizi sociali. Non c'è niente di impossibile, però bisogna guardare ai buoni esempi in Europa e poi portarli avanti giorno per giorno. Se invece ogni volta che cambia governo si cambiano le politiche, allora non otteniamo i risultati necessari.




Devo dire che tutte queste riflessioni aprono una serie enorme di scenari importanti: Sulla formazione sottolineo la questione della formazione continua permanente, dalla culla alla tomba: credo sia essenziale in assoluto e soprattutto da connettere in una dimensione progettuale sul singolo, perché il rischio è che vi sia tanta offerta e poca capacità di legare consapevolmente lo sviluppo professionale individuale a quello sociale...


Una domanda: quale potrà essere il ruolo del privato sociale e dei corpi intermedi?


I corpi intermedi c'entrano fino a certo punto, anche se io sono molto affezionato a questo tema. Credo che avrete visto il libro di che abbiamo pubblicato con Il Mulino , dove ci sono contributi di diverse competenze, compreso qualche tecnologo. 


I corpi intermedi non devono difendere i loro interessi corporativi, tanto meno quelli del passato, perché così non svolgono una funzione utile. Devono cercare di svestirsi delle proprie visioni settoriali e contribuire ad una visione innovativa. Fanno delle cose magnifiche ma spesso sono più bravi nella resistenza che nella innovazione. Hanno dimostrato una notevole vitalità nella riduzione dei danni dello choc pandemico. Ma da questo a dire che sono propulsivi di una visione prospettica come dovrebbero, ne passa. Molti imprenditori si lamentano delle loro associazioni.


Anche queste sono in crisi, come capita al sindacato e ai corpi intermedi. Mi sembrano più dediti alla difesa del consolidato - che pure è cosa utile - ma poco attivi sul resto. Basta vedere la composizione anagrafica dei loro aderenti. Qui vi è un futuro da interpretare e costruire.





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