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Il diritto del lavoro e la responsabilità delle imprese nella sostenibilità

La sfida del decentramento produttivo e delle nuove regolazioni europee

Analisi delle nuove normative europee per la sostenibilità e la responsabilità delle imprese nel diritto del lavoro.

I fenomeni di decentramento produttivo sono molto diffusi nell’ economia moderna e spesso si proiettano oltre i confini nazionali.
Questa forma di organizzazione decentrata delle imprese si avvale di forme contrattuali diverse, non necessariamente attraverso il tipico contratto di appalto. Tali diverse modalità organizzative hanno fatto sorgere la esigenza di porre regole legislative che da una parte non contrastino processi mossi da obiettivi di efficienza e di specializzazione delle attività produttive e dei servizi ,ma che dall’ altra proteggano le condizioni economiche e normative dei lavoratori coinvolti nelle attività decentrate.
Le innovazioni introdotte negli ultimi anni nella organizzazione anche internazionale delle imprese e la loro crescente complessità hanno mostrato la inadeguatezza di molte normative nazionali nate in periodi storici diversi e sollecitato la necessità di adeguamenti sia negli ordinamenti nazionali, fra cui quello italiano, sia in quelli internazionali e per noi particolarmente rilevante quello europeo. Un punto critico, non solo per il nostro sistema, riguarda la regolazione dell’ appalto, più volte modificata nel tempo.
Qui mi limito a segnalare solo due aspetti importanti e controversi, su cui sarà necessario ritornare specificamente. Il primo riguarda la distinzione, da tempo oggetto di dibattito sia in giurisprudenza sia in dottrina, fra il contratto (genuino) di appalto e il contratto di mere prestazioni di lavoro, che è vietato, salvo la somministrazione da parte di agenzie autorizzate.
Il secondo riguarda la garanzia dei trattamenti dei lavoratori impiegati negli appalti. Qui la normativa in vigore è il decreto legge 19/2024 approvato definitivamente dal senato il 23 aprile scorso.
La nuova disposizione ha aggiunto all’art 29 del d.lgs 276/2003 il comma 1 bis, secondo cui “al personale impiegato nell’ appalto di opere o servizi e nel subappalto spetta un trattamento economico e normativo complessivamente non inferiore a quello previsto dal contratto collettivo nazionale e territoriale stipulato dalle associazioni sindacali dei lavoratori e dei datori di lavoro comparativamente più rappresentative sul piano nazionale, applicato nel settore e per la zona strettamente connessi con l’ attività oggetto dell’ appalto e del subappalto“.
Si tratta di una norma innovativa di non facile applicazione, specie per quanto riguarda la individuazione del contratto collettivo giusto, e su cui mi riprometto di tornare Qui intendo analizzare i problemi nati dalle sempre più frequenti proiezioni internazionali delle imprese e delle loro catene di fornitura e dalle normative, in particolare europee, che li hanno affrontati.
Mi riferisco ai due recenti provvedimenti in materia di responsabilità delle imprese, la direttiva cd. reporting (Corporate Sustainability Reporting Directive) CSRD (2022/2464) e la proposta in via di approvazione definitiva sulla Due diligence (da ultimo il testo approvato dal Parlamento Europeo il 24 aprile 2024).
Tali normative hanno stabilito una serie di obblighi alquanto stringenti non solo sulle imprese, definite variamente secondo le loro dimensioni, ma anche sulle catene di valore ad esse facenti capo. Hanno così aperto un nuovo capitolo di regolazione che è destinato a influire grandemente non solo sulle strategie e sui comportamenti futuri delle (grandi) imprese, ma anche sulle modalità con cui esse organizzano e controllano le loro attività decentrate.
La Direttiva reporting ha notevolmente ampliato gli obblighi di comunicazione societaria inizialmente previsti dalla direttiva NFRD (Non Financial Reporting Directive), anche con una estensione extraterritoriale indicando gli argomenti specifici di reporting relativi alle attività delle aziende che hanno impatto anche sugli stakeholder.
Il regolamento UE 2020/852, stabilisce la tassonomia utile a qualificare un’attività come ecosostenibile e su questa base il legislatore europeo ha stabilito come condizione per la erogazione dei fondi NGEU che le attività da essi finanziate non peggiorino in modo significativo le condizioni ambientali allo scopo di garantire una compliance minima in coerenza con la strategia ambientale della Unione.
La portata di questa regolazione è notevolmente accresciuta dal fatto che le regole e gli adempimenti, di reporting e in prospettiva di Due diligence, riguardano non solo le singole entità e gruppi societari, ma anche le varie attività decentrate rappresentate dalle catene globali di valore o, come si esprime la normativa più recente, le “catene di attività” (Testo del Parlamento, cit., art.1).
Per questa via, la normativa europea e le relative leggi di attuazioni nazionali verranno a incidere anche sulle PMI, che sono parte delle catene di attività facenti capo alle società rientranti nell’ambito di applicazione delle direttive.
Il tema è stato oggetto di ampio dibattito e di controversie già nella fase di approvazione delle proposte di direttiva e continua a impegnare la dottrina e gli operatori per le implicazioni che avrà sulle strategie delle società e sulle loro attività decentrate.
Va subito rilevato che la intenzione del legislatore europeo di responsabilizzare le imprese si realizza con un insieme di norme che combinano la fissazione di standard dettagliati con la previsione di procedure e strumenti di gestione del rischio mutuati dalle moderne pratiche aziendali.
Questa scelta si apprezza ulteriormente, perché sposta il focus dell’attività del management dalla regolazione dei rapporti di lavoro e commerciali e dalla valutazione ex post dei risultati alla prevenzione e alla gestione anticipata del rischio.
La novità così sancita, oltre a incidere in modo diretto sulle pratiche aziendali, risponde a una nuova visione del ruolo e delle responsabilità delle imprese corrispondente ai principi internazionali, sanciti da tempo in particolare dall’ OCSE. Esse segnalano la intenzione delle istituzioni, internazionali e nazionali di fare della impresa un tramite delle politiche pubbliche di tutela di beni di rilevanza generale, come la sicurezza del lavoro, la privacy e da ultimo la salvaguardia dell’ambiente.
Il regolamento europeo pubblicato nella G.U. europea del 22 dicembre 2023 indica in grande dettaglio le informazioni richieste alle società in relazione sia alla forza lavoro propria (ESRS S1) sia i lavoratori della catena del valore (ERS S2).
Il regolamento specifica gli obblighi di informazione delle imprese al fine di consentire agli utenti di comprendere i rischi delle attività dell’impresa, delle sue operazioni e attività decentrate, in particolare i suoi impatti sulle questioni di sostenibilità sociale e ambientale (considerando 50 della Direttiva CSRD).
Gli artt. 19 bis e 29 bis, para. 2, lett. f, specificano che è richiesta “una descrizione dei principali impatti negativi, effettivi e potenziali, legati alle attività delle imprese e della relativa catena di fornitura”.
Queste espressioni sono alquanto ampie e rinviano a non specifici strumenti giuridici di legame fra i diversi anelli della catena e delle relative attività, ma semmai a un concetto economico di filiera.
Un concetto simile è confermato dalla versione più recente sopra citate della normativa, che parla di attività di catena di attività svolte dai partener commerciali della società, diretti e indiretti.
I “considerando” della stessa direttiva (n.25 e n. 52) specificano anche le attività di questi business partner sia a monte (es. produzione di beni e servizi) sia a valle (es. distribuzione, trasporto).
Il riferimento a un business partnership fra gli anelli della catena sembra alludere a una relazione non momentanea e isolata, ma provvista di un certo grado di stabilità. In questo senso sembra intesa anche dagli operatori, secondo i quali l’obbligo informativo non dovrebbe riguardare ogni singola entità della catena, ma solo quelle rilevanti e quelle stabilite o permanenti (v. ad es. S. Petruzzelli, Lo standard europeo di rendicontazione di sostenibilità: il focus della value chain, Assolombarda, 21.2.2023).
Inoltre per alleviare tale obbligo, da molti ritenuto eccessivamente oneroso, il punto 4 del nuovo art. 2ter della direttiva CSRD (secondo quanto indicato anche nel considerando 53) prevede la possibilità di tener conto delle difficoltà che le imprese possono trovare nel raccogliere le necessarie informazioni presso i vari soggetti della catena, specie di quelli non soggetti a obblighi normativi di rendicontazione o presso i fornitori di mercati emergenti, ammettendo che, ove le circostanze non permettano alle società di raccogliere tutte le informazioni specifiche sia possibile riportare solo stime, anche facendo riferimento a dati medi di settore (cd. value chain cap).
L’esigenza di non appesantire gli obblighi informativi oltre il ragionevole e di dare tempo di adeguarsi, specie alle PMI, ha suggerito una applicazione progressiva di tali obblighi a seconda delle dimensioni e specifici rinvii nella attuazione delle norme per alcuni settori.
Le nuove regole richiederanno probabilmente adattamenti e specificazioni ulteriori, per agevolarne la pratica attuazione. In ogni caso richiederanno un notevole affinamento delle pratiche aziendali riguardanti sia il dovere di informazione e di trasparenza sia quello di diligenza nell’attuazione degli impegni di sostenibilità sociale e ambientale.
Per quanto riguarda le informazioni dovute, il regolamento sopra citato stabilisce che esse devono comprendere una descrizione delle tipologie di lavoratori della catena di valore che possono subire impatti rilevati, sia quelli operanti a monte dell’ impresa (ad es. coinvolti nella estrazione di minerali e nella raccolta di materie prime), sia che lavorano a valle (ad es. nella logistica e distribuzione), indicando quelli particolarmente vulnerabili agli impatti negativi (migranti, donne, giovani, sindacalisti). Oggetto di dovuta segnalazione sono anche le aree geografiche o attività per cui esiste un rischio significativo di lavoro minorile, forzato o coatto.
E’ importante sottolineare che le informazioni descrittive di tali elementi devono essere accompagnate dalla individuazione degli “impatti rilevanti, effettivi e potenziali” delle attività aziendali sulla forza lavoro propria e su quella della catena di attività in relazione a tutti i fattori e questioni indicati dalla direttiva.
Questi adempimenti informativi e di valutazione non potranno restare senza ricadute sui comportamenti concreti delle imprese e delle loro attività decentrate nella catena delle forniture.
Una volta che le imprese abbiano indicato in dettaglio le loro strategie sui principali aspetti dei rapporti individuali e collettivi di lavoro, avendole prima comunicate e discusse con le rappresentanze sindacali e accompagnate con valutazioni di impatto, questo insieme di informazioni e valutazioni costituiranno un patrimonio comune a tutte le componenti aziendali e delle comunità territoriali interessate, cui è dedicato un altro capitolo della direttiva (ESRS S 3).
Per questo motivo esse tenderanno a esercitare un condizionamento più o meno intenso sulle decisioni e sui comportamenti delle imprese interessate in senso coerente con le informazioni e le valutazioni fornite e rese pubbliche.
Se questo è vero, come credo, si può ritenere che il pieno adempimento degli obblighi della Direttiva reporting potrà se non anticipare, certo preparare il terreno per gli obblighi di Due diligence indicati nella proposta di direttiva ora in itinere.
Tali obblighi, anche qui estesi alla catena di attività come sopra indicata, renderanno ancora più stringente la necessità delle imprese capofila di controllare le loro attività decentrate, perché la normativa due diligence richiederà la individuazione non solo dei rischi di queste attività per i diritti umani, sociali e ambientali, ma anche degli impatti negativi sia effettivi che potenziali sugli stessi diritti e la adozione delle misure necessarie di prevenzione e mitigazione dei rischi.
Tali procedure sono dirette a prevenire la violazione della serie di diritti indicati in due allegati alla proposta di direttiva: uno riguarda i principali diritti sociali presenti negli accordi e nelle convenzioni internazionali dell’OIL, l’altro gli obiettivi e i divieti inclusi nelle convenzioni internazionali ambientali (art 3, lett. b e c della proposta).
Queste indicazioni riguardano una base comune di diritti internazionalmente riconosciuta, che molte delle normative nazionali, specie europee, hanno in varia misura integrato.
Nella fase di recepimento della futura direttiva da parte degli Stati si tratterà di vedere se e come gli obblighi procedurali di prevenzione si rapporteranno ai diversi contenuti in materia di diritti sociali e ambientali delle normative nazionali: il che influirà evidentemente sulla pregnanza degli impegni richiesti alle aziende e alle parti sociali. Si tratterà anche di vedere se le informazioni richieste alle aziende e alle loro catene di valore, e i conseguenti obblighi di due diligence, comprenderanno solo le norme di legge riguardanti i vari aspetti dei rapporti di lavoro o anche le condizioni stabilite dalla contrattazione collettiva.
Le indicazioni del regolamento sopra citato sono così ampie che possono comprendere anche queste ultime. In tale caso il controllo sui contenuti dei rapporti di lavoro decentrati lungo la intera catena di valore assumerebbe una ulteriore intensità. La sua portata andrebbe precisata, in sede di attuazione delle direttive, tenendo conto di quanto sostenuto nella prima parte di questo scritto circa il tipo e la efficacia dei contratti collettivi da considerare.



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