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Rapporto di lavoro

Decentramento e nuove prospettive nel mondo del lavoro

L’evoluzione del concetto di impresa nel post-fordismo

Decentramento e trasformazioni aziendali: analisi delle opportunità economiche e delle sfide normative.

1:
I fenomeni di outsourcing e di esternalizzazione sono bene radicati nell’economia nazionale nonché nelle economie degli altri Paesi.
Anche per questo sono oggetto di studio le trasformazioni della figura del datore di lavoro/impresa.

L’impresa fordista, nella tradizionale stilizzazione, è un’impresa che attraverso proprio personale esegue, entro i suoi confini fisici, gran parte, se non tutto, il proprio ciclo produttivo e anche le attività ad esso accessorie.

Nello scenario del post-fordismo, sono tante le imprese che esternalizzano le attività accessorie e, come non è affatto escluso, anche parti importanti, magari preponderanti, del proprio processo di produzione dei beni e/o dei servizi per i quali l’impresa opera sul mercato.

Fenomeni eterogenei che assumono forme diverse, in grado di combinarsi in vari modi.

L’affidamento di attività ad una o più imprese terze può collocarsi fisicamente all’interno dell’impresa che decentra, ad esempio in attuazione di un contratto di appalto interno.

Il decentramento può portare l’attività all’esterno dell’impresa, magari a favore di imprese operanti al di fuori dei confini nazionali, attraverso contratti di varia natura (non necessariamente attraverso il tipico contratto di appalto).

Della partita del decentramento fa anche parte il trasferimento di azienda e, in particolare, il trasferimento di rami di azienda.

Non è affatto detto che il trasferimento di una parte dell’azienda sia espressione di un disinteresse per l’attività in essa esercitata (ad esempio, viene venduto il ramo di azienda per reperire risorse da investire nella restante parte dell’impresa).

Nondimeno, la stessa legislazione visualizza una possibile finalità diversa del trasferimento, prevedendo il “…caso in cui l’alienante stipuli con l’acquirente un contratto di appalto la cui esecuzione avviene utilizzando il ramo di azienda oggetto di cessione…” (art. 2112, comma 6, c.c.).

Un evidente esempio, questo, di combinazione di più strumenti contrattuali con lo scopo del decentramento.

A fronte delle nuove forme di organizzazione delle imprese, la stessa espressione decentramento risulta in grado di cogliere solo una parte dei fenomeni in atto.

L’espressione dà l’idea dello spostamento/trasferimento di una attività già interna ad una impresa.

In realtà, si vedono disegni imprenditoriali fin dall’origine concepiti in vista della collaborazione fra una pluralità di imprese che, esercitando ciascuna propri business, perseguono obiettivi di efficienza e riduzione dei costi tramite la complementarietà delle attività esercitate, la condivisione di tecnologie e know-how o in altri modi.

La figura delle reti di imprese, ormai recepita anche a livello legislativo, ne costituisce solo un esempio, rilevante anche perché ha sollecitato innovazione nella legislazione lavoristica con la legittimazione di ipotesi di codatorialità.

2:
I nuovi modi di fare impresa fanno avvertire l’esigenza di regolamentazioni legislative che, da una parte, non contrastino processi mossi da obiettivi di efficienza, di qualità dei beni e dei servizi offerti al mercato, di competitività e, dall’altra, di misure che contrastino la penalizzazione del lavoro (magari scientemente ricercata) come riflesso dell’orientamento delle imprese fra scelta make e scelta buy.

Nel corso della sua storia, il diritto del lavoro ha elaborato diverse tecniche volte a salvaguardare la posizione dei lavoratori nei processi di allocazione delle attività connesse alla produzione degli stessi beni e servizi in capo a più imprese.

L’imputazione dei rapporti di lavoro all’impresa decentrante in presenza di uno pseudo appalto, la continuità dei rapporti di lavoro a seguito della cessione dell’azienda o di suoi rami costituiscono degli esempi di un armamentario via via messo a punto e sperimentato.

A fronte delle tendenze innovative a cui sopra si è fatto solo qualche accenno, è fuor di dubbio l’esigenza di una verifica generale della adeguatezza, nella attualità e in prospettiva, dell’apparato legislativo, risalente almeno per alcune parti a stagioni ben diverse sul piano economico ed industriale e, inoltre, definite ben prima dei più recenti input provenienti dall’Unione europea.

3:
Concentrando l’attenzione solo su alcuni degli aspetti delle normative riguardanti la distribuzione coordinata dei processi produttivi fra più imprese, può osservarsi come risulti assestata la disciplina del trasferimento di azienda o di parti di azienda.

L’art. 2112 c.c., fin dall’inizio presente nel codice e rivisto più volte anche per dare attuazione alla Direttiva europea n. 23 del 2001, ha costituito e continua a costituire un baluardo di due principi in tema di trasferimento di complessi aziendali:

  • Da una parte, la continuità dei rapporti di lavoro con il subentro del cessionario nella posizione di datore di lavoro;
  • Dall’altra, la conservazione dei diritti dei lavoratori maturati prima della cessione.

La versione vigente dell’art. 2112 amplia l’ambito di applicazione di detti principi.

Tale articolo, infatti, dà una definizione di “azienda” diversa da quella che si ritrova nel codice civile: per l’art. 2555 “l’azienda è il complesso dei beni organizzati dall’imprenditore per l’esercizio dell’impresa”; “ai fini e per gli effetti” dell’art. 2112, ricorre il trasferimento ogni volta che interviene una successione nella “…titolarità di un’attività economica organizzata”.

Sussistendo l’elemento della organizzazione, le garanzie dell’art. 2112 trovano applicazione anche in caso di trasferimento di una azienda smaterializzata, ossia di una attività labour intensive con un minimo (se non del tutto priva) di supporti materiali.

Nella versione vigente, inoltre, compare direttamente l’ipotesi del trasferimento parziale dell’azienda, intendendo per “parte” dell’azienda la “articolazione funzionalmente autonoma di un’attività economica organizzata, identificata come tale dal cedente e dal cessionario al momento del trasferimento”.

Ebbene, la normativa di cui all’art. 2112, insieme alle altre previsioni che la compongono, può considerarsi consolidata anche perché traduce principi della Direttiva comunitaria che vincolano il legislatore nazionale.

Ciò senza che risulti del tutto sopito il contenzioso giudiziario su di alcuni aspetti (con riferimento, in particolare, al trasferimento del ramo di azienda, non solo per quanto riguarda la necessità della preesistenza, o meno, dell’autonomia del ramo al trasferimento).

Nelle situazioni fisiologiche dell’impresa, dunque, l’art. 2112 continua a regolare il trasferimento, operando come tipica normativa inderogabile, non modificabile nemmeno dalla contrattazione collettiva.

Dopo l’entrata in vigore del Codice della crisi (d.lgs. n. 14/2019 e successive modifiche e integrazioni), nemmeno una situazione di “precrisi” - individuata in “…condizioni di squilibrio patrimoniale o economico-finanziario che ne rendono probabile la crisi o l'insolvenza…” (art. 12 d.lgs. n. 14/2019) - può evitare l’applicazione dell’art. 2112.

La procedura di composizione negoziata, prevista dall’art. 12 e seguenti del Codice, ha come presupposto proprio la “precrisi”.

Il Codice individua nel trasferimento dell’azienda o di suoi rami un possibile sbocco di tale procedura, ma al tempo stesso è netto nell’affermare che comunque “resta fermo l'articolo 2112 del codice civile” (art. 22).

La crisi e l’insolvenza, destinatarie di specifiche definizioni, continuano ad operare come presupposto di accordi sindacali legittimati a derogare l’art. 2112, ma in termini che il Codice della crisi ridefinisce seguendo uno schema che distingue fra le procedure di regolazione della crisi e dell'insolvenza:

  • Quelle immuni da finalità liquidatorie (es. concordato preventivo in regime di continuità indiretta, accordi di ristrutturazione dei debiti privi di carattere liquidatorio, amministrazione straordinaria in caso di continuazione o di mancata cessazione dell'attività);
  • Quelle con finalità liquidatoria (es. liquidazione giudiziale, concordato preventivo liquidatorio, liquidazione coatta amministrativa, amministrazione straordinaria in cui la continuazione dell'attività non sia stata disposta o sia cessata).

Nelle procedure appartenenti alla prima categoria, il principio della continuità dei rapporti di lavoro preesistenti al trasferimento resta inderogabile e solo “le condizioni di lavoro” sono sottratte alla salvaguardia altrimenti derivante dall’art. 2112.

4:
L’appalto è pensato come una forma di collaborazione fra imprese e, in quanto contratto tipico disciplinato in tutti i suoi aspetti essenziali dal codice civile, è per definizione considerato capace di rispondere ad interessi meritevoli di tutela (es. ripartizione del rischio in operazioni economiche particolarmente complesse, valorizzazione della specializzazione nell’esercizio di particolari attività).

Da sempre il contratto di appalto è stato accompagnato da discussioni volte a chiarirne le peculiarità e, quindi, a distinguerlo da altri schemi contrattuali (quali la somministrazione, il contratto d’opera).

Problemi, questi della distinzione, che la legislazione lavoristica ha tradizionalmente affrontato vietando “… l’appalto di mere prestazioni di lavoro” e, quindi, contratti che, al di là della denominazione adottata dalle parti, non vedono in fase esecutiva un appaltatore che realizzi l’opera o il servizio pattuito “con organizzazione dei mezzi necessari e con gestione a proprio rischio” (art. 1655 c.c.).

Abrogata la legge n.1369/1960, centrata proprio sul predetto divieto, si è assestata la legittimazione della somministrazione di lavoro da parte delle Agenzie appositamente autorizzate.

L’impiego del contratto di appalto con lo scopo di acquisire servizi resi da altre imprese è venuto a collocarsi in una regolamentazione che è caratterizzata, al tempo stesso, da permissività e da incertezza.
Presenta questa caratteristica l’art. 29, comma 1, del d.lgs. n.276/2003.

In tale disposizione, trova conferma la legittimità degli appalti ad intensità di lavoro (appalti “leggeri”), in cui sono minimi i mezzi materiali che l’appaltatore impiega per l’esecuzione dell’appalto.
Conferma accompagnata dalla sottolineatura che, in casi del genere, è sufficiente lo “… esercizio del potere organizzativo e direttivo nei confronti dei lavoratori utilizzati nell'appalto…” da parte dell’appaltatore e l’assunzione, da parte del medesimo appaltatore, del rischio d'impresa.

L’incertezza, di cui occorre avere piena consapevolezza, è legata agli equivoci che possono sorgere ove vengano esercitate prerogative che il codice civile riconosce al committente/appaltante in termini di controllo e di interlocuzione circa i modi migliori di esecuzione dell’appalto anche a fronte di esigenze che possono variare durante il tempo di esecuzione del contratto.

In particolare negli appalti “leggeri”, queste prerogative sono da esercitare con molta cautela e rispettando l’autonomia operativa dell’appaltatore in primo luogo (ma non solo) nella gestione del personale dallo stesso dipendente.

La limitatezza, se non l’assenza, di mezzi materiali può, infatti, rendere più agevoli operazioni di riqualificazione del contratto come un contratto di mera somministrazione di lavoro.

Il decreto legge n. 19/2024, approvato definitivamente dal Senato il 23 aprile u.s., ha aggiunto all’art. 29 il comma 1-bis:

“Al personale impiegato nell’appalto di opere o servizi e nel subappalto spetta un trattamento economico e normativo complessivamente non inferiore a quello previsto dal contratto collettivo e territoriale stipulato dalle associazioni sindacali dei lavoratori e dei datori di lavoro comparativamente più rappresentative sul piano nazionale, applicato nel settore e per la zona strettamente connessi con l’attività oggetto dell’appalto e del subappalto”.

Si tratta di una disposizione che direttamente vincola gli appaltatori e gli eventuali subappaltatori.
Ciò non toglie che essa riguardi anche il committente/appaltante che, ove non venga applicato il contratto giusto, potrà essere chiamato in campo a titolo di responsabilità solidale.

Il contratto collettivo giusto?
L’individuazione del contratto richiesto dal nuovo comma 1-bis non è affatto una operazione banale, è da condurre con molta attenzione e di essa anche i committenti/appaltanti dovranno occuparsi (indicando lo specifico contratto collettivo individuato già nel contratto di appalto?).

In una sorta di rassegna dell’incertezza che ruota intorno al contratto di appalto, non può dimenticarsi l’art. 29, comma 3, dello stesso d.lgs. 276/2003 (come riformulato dalla L. n.122/2016):

“L'acquisizione del personale già impiegato nell'appalto a seguito di subentro di nuovo appaltatore dotato di propria struttura organizzativa e operativa, in forza di legge, di contratto collettivo nazionale di lavoro o di clausola del contratto d'appalto, ove siano presenti elementi di discontinuità che determinano una specifica identità di impresa, non costituisce trasferimento d'azienda o di parte d'azienda”.

Una volta riconosciuto che il trasferimento di azienda o di ramo di azienda non richiede necessariamente un rapporto contrattuale diretto fra l’imprenditore uscente e quello subentrante (come ha fatto la Corte di giustizia dell’Unione europea) e altresì che non è insuperabile la qualificazione data da contratto collettivo come “cambio appalto” e non come trasferimento di ramo di azienda, può emergere incertezza stante che:

  • Da una parte, il ramo di azienda (come si è già visto) può consistere in gruppo organizzato di lavoratori capace di esercitare una distinta attività imprenditoriale;
  • Dall’altra, la disposizione legislativa è stata molto parca di indicazioni circa gli “elementi di discontinuità” idonei a tenere lontana la fattispecie del trasferimento di ramo di azienda.

Le normative che ruotano intorno all’appalto vanno ancor di più considerate con attenzione alla luce della rivisitazione dell’apparato sanzionatorio disposto dal decreto legge n. 19/2024.

In caso di appalto privo dei requisiti di cui all'articolo 29, comma 1, del d.lgs. n.276/2003, l'utilizzatore e il somministratore sono esposti alla pena dell'arresto fino a un mese o dell'ammenda di euro 60 per ogni lavoratore occupato e per ogni giornata di occupazione. Se vi è sfruttamento dei minori, l'arresto può arrivare fino a diciotto mesi e l'ammenda è aumentata fino al sestuplo.

A parte quanto viene previsto ai fini della limitazione delle sanzioni enunciate in prima battuta come particolarmente pesanti, emergono così ragioni ulteriori a favore della selezione iniziale dei partner contrattuali in ragione della loro consistenza imprenditoriale rispetto alle attività che sono chiamati a svolgere in esecuzione del contratto di appalto, come è richiesta particolare rigorosità nel non travalicare le prerogative che competono al committente/appaltante nella fase di esecuzione del contratto.

La partecipazione ad un appalto non genuino può, infatti, costare caro.

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