1. Massimo Roccella, nel suo volume “I salari” (pubblicato nel 1986), è stato fra i primi autori, allora del tutto isolato in Italia, a sostenere la necessità di introdurre anche nel nostro paese una legislazione sui minimi salariali.
Il testo, oltre a fornire una ampia ricostruzione storica delle origine e della evoluzione dei salari minimi nei principali paesi, approfondisce le condizioni di contesto in cui l’istituto è stato introdotto, i motivi economici e sociali che lo hanno sostenuto e le implicazioni per i sistemi di relazioni industriali in cui ha operato.
L’autore svolge anche un ampio esame critico dei diversi argomenti che sono stati addotti per dimostrarne la inopportunità e inapplicabilità nei sistemi dotati di una contrattazione collettiva consolidata (ritenuta) in grado di fornire una adeguata tutela dei salari dei dipendenti.
Dalla sua trattazione risultano motivi già allora avanzati per opporsi alla legislazione sui minimi che sono stati riprodotti largamente in seguito sia dalle nostre parti sociali sia da larga parte della dottrina giuridica.
Gli argomenti principali sono di due tipi. Il primo si fondava sulla capacità comunemente riconosciuta al nostro sistema contrattuale di garantire adeguati livelli salariali alla generalità dei lavoratori, oltre che sul comune riconoscimento da parte dell’ordinamento giuridico che la competenza primaria se non esclusiva a regolare la materia salariale spetta alla contrattazione collettiva.
Il secondo argomento denunciava il pericolo che un intervento legislativo sui minimi salariali potesse interferire sull’autonomia contrattale delle parti alterando le dinamiche interne della contrattazione e scoraggiando la diffusione del tasso di copertura contrattuale.
Nel motivare la sua critica a tali argomenti, Roccella indica i motivi per cui gli strumenti presenti nel nostro ordinamento per sostenere la contrattazione collettiva nazionale, dall’ art 36 dello Statuto dei lavoratori, all’applicazione giurisprudenziale dell‘ art 36 Cost., alla normativa sugli appalti pubblici che richiede ai partecipanti la applicazione dei minimi contrattuali, sono insufficienti a contrastare i bassi salari e i fenomeni di evasione contrattuale.
L’autore non manca di notare come il decentramento produttivo e la frammentazione dei mercati del lavoro già allora presenti nel nostro mercato del lavoro, stessero indebolendo il sistema contrattuale e diffondendo processi di “regressione del contratto collettivo” con conseguente aumento della pratica dei sottosalari (p.81).
D’ altra parte le proposte da più parti avanzate di rafforzare la contrattazione collettiva nazionale prevedendo strumenti per dare efficacia erga omnes ai contratti nazionali, appaiono a Roccella di difficile attuazione, come in effetti sarà confermato dagli eventi successivi fino ai giorni nostri.
A sancire la efficacia generale dei contratti si oppone anzitutto l’ostacolo rappresentato dall’art 39 Cost., che anche Massimo ritiene insuperabile. In ogni caso l’autore osserva che la soluzione dell’erga omnes non sarebbe sufficiente a tutelare i salari nei settori privi di consistente presenza contrattuale o nei quali le organizzazioni sindacali sono così deboli da non poter negoziare livelli retributivi minimi accettabili (p.83).
Per di più l’autore ritiene che un meccanismo come quello previsto dalla norma costituzionale non sarebbe facilmente conciliabile con l’assetto sindacale italiano basato di fatto sul principio della “pari dignità fra le parti sindacali, al di là della composizione formale degli organismi sindacali unitari” (ivi).
Al contrario secondo Roccella una legislazione sui minimi salariali non presenterebbe controindicazioni specifiche, perché non richiederebbe alterazioni nell’ assetto sindacale e nei rapporti fra le parti negoziali. Ma questa sua valutazione doveva essere smentita nel tempo dalle stesse parti sociali, sia pure con argomenti diversi e sovente discutibili.
Ricordo ancora come nella concezione dell’autore il salario minimo legale, da costruirsi su base Intercategoriale secondo le migliori esperienze comparate, non doveva servire solo al contrasto dei bassi salari, ma costituire un elemento della politica economica pubblica e in particolare essere parte di una ampia manovra di interventi sul mercato del lavoro (p.87) che in quel tempo si stava predisponendo.
2. Dal tempo in cui Roccella scriveva “I salari”, il dibattito e le esperienze in tema di minimi salariali hanno avuto non pochi sviluppi, invero più nei vari paesi europei e a livello comparato che nel nostro paese. Infatti l’Italia è uno dei pochi (sei) paesi della Unione Europea a essere ancora privo di una normativa legale in materia; e gli argomenti contrari alla sua introduzione non si sono molto differenziati da quelli svolto nel testo di Roccella.
In effetti i paesi con sistemi di relazioni industriali dotati di contrattazione centralizzata e buona copertura negoziale, fra cui l’Italia, hanno sentito meno di altri il bisogno di compensare la carenza della autotutela collettiva in materia di retribuzione minima; infatti sono quelli che hanno resistito di più alla introduzione di una legislazione sui minimi salariali.
Va peraltro ricordato che in Italia, come in altri paesi ad alto tasso di copertura contrattuale collettiva, un intervento legislativo sui salari si è comunque reso necessario in settori marginali o esterni al sistema di relazioni industriali: nel nostro ordinamento anzitutto per il lavoro a domicilio e poi con modalità diverse per il lavoro dei soci di cooperative, più di recente per le collaborazioni coordinate e continuative (in altri paesi per i lavori economicamente dipendenti), da ultimo per i lavoratori etero organizzati, anche su piattaforma. Lo ricordo per notare che tali disposizioni sono state giustificate, sia pure con varianti, per la necessità di contrastare i “salari estremamente bassi” (per usare la terminologia internazionale); e quindi si sono diretti in particolare a settori e tipi di lavoro difficilmente raggiungibili dalla contrattazione collettiva nella sua funzione di autorità salariale.
La accettazione di tali normative da parte dei sindacati si spiega per il loro ambito specifico e inoltre per il fatto che esse non fissano direttamente un salario minimo valido per tale ambito, ma rinviano ai diversi livelli salariali fissati dai contratti collettivi nazionali, attribuendovi una efficacia generale. Un intervento legislativo così configurato non presenta alcun rischio di interferire nelle dinamiche contrattuali, anzi le rafforza supplendo alle carenze dell’azione sindacale.
Senonché le trasformazioni intervenute nei mercati del lavoro richiamate nel testo di Roccella e quelle accelerate dalle innovazioni e dalle crisi degli anni successivi, hanno mostrato con tutta evidenza che i bassi salari, spesso nettamente inferiori ai minimi negoziati collettivamente, si sono diffusi al di là delle aree del lavoro atipico, e sono presenti anche nelle categorie storiche del lavoro dipendente, in particolare fra i lavoratori occupati nei settori più deboli del mercato del lavoro: piccole imprese, giovani, donne, lavoratori con bassa istruzione, immigrati. Per di più il fenomeno dei lavoratori poveri si è rivelato non transitorio né limitato al periodo della crisi economica, ma legato a caratteristiche strutturali della domanda e dell’offerta di lavoro.
I dati recenti confermano come un aspetto significativo della debolezza dell’attuale sistema di fissazione dei salari sia appunto la difficoltà della contrattazione collettiva di garantire retribuzioni sufficiente alla generalità dei lavoratori. Inoltre tali dati registrano non solo una significativa dispersione dei minimi tabellari stabiliti i nei principali contratti collettivi nazionali e la presenza di alcuni contratti con minimi particolarmente bassi, ma anche la esistenza di una quota non irrilevante di lavoratori la cui retribuzione è inferiore ai minimi tabellari del settore.
Le dimensioni del fenomeno dei sottosalari sono variamente stimate dalle diverse fonti, ma la maggior parte di queste mostrano che circa il 20% dei lavoratori con contratto di lavoro dipendente a orario pieno sono pagati meno dei minimi contrattuali, talora con consistenti distanze da questi minimi, specie in settori con elevato numero di occupati.
Le distanze sono mediamente più elevate nei servizi (nel settore immobiliare sono stimate al 35,1%, nel commercio al 24%, nel settore alberghiero ristorazione turismo al 21,41%) e in agricoltura (ove la distanza e del 25 6%), mentre sono più contenute nella maggioranza dei settori manifatturieri. (nota)
La incidenza dei fenomeni qui sintetizzati sulle debolezze della contrattazione e sulle condizioni salariali dei lavoratori si è andata acuendo nel periodo della crisi pandemica, anche se con dimensioni non ancora del tutto accertate per la perdurante incertezza sulla durata e sull’impatto della pandemia.
Un aspetto particolarmente drammatico testimoniato da tutte le fonti nazionali e internazionali è l’aumento del rischio di in-work poverty. Tale rischio in Italia si presentava già prima della pandemia nella misura del 12,3%, più alto della media europea che è del 9,3%. Stando alle stime preliminari Istat per il 2020, tale livello è probabilmente cresciuto nel corso del 2010, perché in questi mesi la povertà assoluta è aumentata fino a un totale di 5,6 milioni di individui (più 1.7% sul 2019).
Questi dati dimostrano con drammatica evidenza che il lavoro non è più, come da sempre ritenuto, una garanzia contro la povertà. Non lo è il lavoro precario, anche questo cresciuto negli anni e aggravato dalla crisi; ma è sempre meno così anche per il lavoro a tempo indeterminato perché le condizioni critiche della economia hanno impoverito tutti i lavoratori (come conferma la riduzione generale del Labour share nei paesi OCSE). (nota)
3. I dati ora richiamati e la crescente incapacità della contrattazione collettiva di garantire livelli salariali adeguati ai lavoratori hanno convinto anche sindacati inseriti in una forte sistema di relazioni contrattuali come quelli del Regno Unito (nel 1998) e della Germania (nel 2015) ad accettare una legislazione sui salari minimi.
La prima esperienza applicativa del salario minimo legale nel sistema tedesco ha confermato la utilità di questo strumento per la protezione dei lavoratori a basso salario, nonché per limitare i danni del decentramento contrattuale e delle clausole opting out che avevano ridotto la copertura degli standard retributivi negoziati in sede nazionale, specie nei settori a bassa produttività e a debole presenza sindacale.
D’altra parte tale esperienza sembra confermare le indicazioni più generali delle ricerche comparate e della letteratura economica secondo cui l’introduzione del salario minimo legale non intacca il ruolo della contrattazione nazionale. Questa mostra di poter sopravvivere accanto ai minimi legali e anzi può essere rafforzata dal fatto che le retribuzioni dei lavoratori più deboli e più difficili da organizzare sono già coperti dal minimo legale.
È vero peraltro che secondo alcune ricerche nei paesi ove i salari minimi sono fissati dalla contrattazione (in Italia in particolare) questi minimi risultano mediamente più alti rispetto ai paesi in cui vige un salario minimo legale; tuttavia una quota significativa di lavoratori (poveri) non risulta coperta dagli effetti della contrattazione collettiva. Ciò significa che un livello elevato dei minimi salariali contrattati, più che un successo della contrattazione collettiva, sembra evidenziare una debolezza nei confronti dei lavoratori a basso salario.
L’esperienza dei paesi che hanno introdotto da tempo un minimo salariale legale dimostra che anche gli effetti di spiazzamento dell’occupazione attribuiti a tale misura sono molto contenuti se non addirittura positivi nel medio periodo. E la stessa opinione degli economisti originariamente più critici in materia è molto cambiata negli ultimi decenni, anche a seguito di nuove ricerche che hanno confermato come gli effetti negativi dei salari minimi legali sull’occupazione siano limitati (Garnero, Uno strumento ancora controverso, cit.).
Risultano così avvalorati gli argomenti ricordati di Massimo Roccella e la sua conclusione secondo cui la legislazione sui minimi salariali si può giustificare come una doverosa attuazione dell’art 36 Cost.; così è rafforzata la sua convinzione che la rivendicazione di un salario minimo legale dovrebbe essere fatta propria dal sindacato come strumento integrativo delle carenze della contrattazione e “come fonte di rinnovata legittimazione nei confronti dell’insieme della classe lavoratrice” specie delle sue componenti più deboli.
Ricordo pure che nel sostenere tale convinzione Massimo rivolge un forte richiamo al sindacato appoggiandolo sull’autorità di Gino Giugni: “vi è un punto limite al di là del quale l’esclusivismo sindacale si condanna da sé, quando l’abbandono degli strati marginali della classe lavoratrice incide sulla stessa capacità di pressione degli strati più avanzati” (op. cit., p. 95).
Certo le analisi nazionali e comparate mostrano che il contrasto ai bassi salari non può limitarsi al salario minimo legale né a interventi su singoli aspetti della dinamica contrattuale e salariale, ma richiede interventi sui vari snodi critici del sistema di relazioni industriali. È tuttavia significativo che la crescente erosione dei meccanismi contrattuali di tutela dei salari ha convinto la maggior parte degli esperti anche internazionali della necessità di rafforzare le tutele dei lavoratori, anche con una legislazione sui minimi salariali
Va notato che le maggiori confederazioni sindacali italiane, mentre hanno confermato la loro contrarietà a un salario minimo legale, hanno avanzato di recente una proposta alternativa che la distingue anche dalle precedenti richieste di “erga omnes”. Essa non propone infatti di estendere per legge la efficacia dell’intero contenuto dei contratti collettivi, ma di operare solo sulla parte salariale, o meglio sui livelli salariali di base fissati dai contratti di categoria, prendendoli a riferimento come garanzia salariale minima per le varie categorie e qualifiche di lavoratori. Tale operazione potrebbe giustificarsi come attuazione del principio di retribuzione proporzionale e sufficiente sancito dall’art. 36 Cost. e così potrebbe evitare obiezioni ex art. 39 Cost. (nota)
È di tutta evidenza che tale proposta è diversa da una legislazione sui salari minimi come configurata nella maggior parte dei paesi europei. Il salario minimo legale è di norma fissato in una unica misura standard, cioè non differenziata per settore né tanto meno per qualifiche. Semmai può presentare variazioni per territorio o per gruppi di lavoratori: per esempio è fissato in misura ridotta per i giovani e per gli apprendisti. Viceversa l’estensione erga omnes della parte salariale dei contratti collettivi nazionali comporterebbe salari legali differenziati per i diversi settori e per le diverse qualifiche/categorie. La differenza fra i due approcci è rilevante non solo sul piano normativo, ma anche quanto agli effetti economici sulle dinamiche salariali e sugli equilibri della struttura contrattuale.
I due meccanismi di tutela peraltro non sono fra loro incompatibili. Anzi la loro coesistenza è confermata dall’esperienza di molti paesi, e si può giustificare anche alla stregua della nostra normativa costituzionale riconoscendo alla legislazione sui minimi la funzione di specificare il principio di sufficienza e alla contrattazione collettiva quella di attuare il principio della proporzionalità del salario alla qualità e quantità del lavoro.
Ho già avuto modo di sostenere che la introduzione di un salario minimo legale non svuoterebbe il ruolo della giurisprudenza italiana ex art 36. Cost., contrariamente a quanto ipotizzato in dottrina, che i giudici sarebbero indotti ad applicare come parametro della giusta retribuzione solo il minimo legale e non più i livelli retributivi contrattuali (Dell’Aringa, p. 444). Non credo che sia così perché la introduzione del minimo legale evidenzierebbe la distinzione fra la funzione di tale minimo come strumento di garanzia della sufficienza retributiva (nonché di contrasto alla povertà), e il ruolo dei contratti collettivi di governare la scala salariale secondo le varie professionalità. Tale modifica di quadro non potrebbe che essere accolta dalla giurisprudenza inducendola a rivedere le proprie posizioni tradizionali le quali hanno applicato in modo congiunto i principi costituzionali della sufficienza e della proporzionalità retributiva, con una politica del diritto ibrida fra tutela dei minimi salariale e rafforzamento della scala salariale definita dai contratti collettivi (Treu, La questione salariale, cit., p.12).
4. Il dibattito italiano in materia di salario minimo, che è rimasto a lungo alquanto stagnante e bloccato da pregiudiziali contrarie delle parti sociali, in specie sindacali, è stato di recente rianimato dalla proposta di direttiva avanzata dalla presidenza Van der Leyden della Commissione europea.
Ho già osservato altrove (nota) che tale proposta è politicamente tanto più significativa anzi dirompente, perché riguarda un tema centrale regolato con non poche dissonanze nei sistemi nazionali di relazioni industriali, e molto controverso negli Stati membri, a cominciare dall’Italia, anche perché circondato dalla diffidenza dalle parti sociali, nonché dalla aperta contrarietà delle confederazioni sindacali.
Nel merito l’iniziativa della Commissione segnala un radicale cambiamento di prospettiva rispetto agli orientamenti seguiti negli anni precedenti. Dalle reiterate raccomandazioni a contenere le dinamiche retributive per non ostacolare la competitività dei sistemi produttivi, si passa a sostenere la necessità di garantire salari minimi adeguati come strumento importante per promuovere un lavoro dignitoso per tutti i lavoratori europei e anche per una regolazione equilibrata del mercato del lavoro.
In realtà il diritto dei lavoratori dipendenti ad avere un retribuzione adeguata è sancito da tempo nelle principali fonti internazionali: dall’art 4 della Carta sociale europea, dall’art. 31 della Carta dei diritti fondamentali della Unione Europea, e ancora prima dalla convenzione OIL 131 del 1970. Ma queste convergenti indicazioni internazionali hanno avuto seguito solo parziale in norme attuative anche negli Stati europei. Spesso sono rimaste disattese o ampiamente eluse nella pratica specie, per gruppi e aree deboli, come mostra fra l’altro il crescente numero di working poors.
La seconda versione della proposta di direttiva europea ha ricevuto una accoglienza più favorevole della prima, non solo per le modifiche apportate al testo, ma anche a seguito delle mutate condizioni di contesto e della nuova percezione da parte delle organizzazioni sociali della gravità del fenomeno dei working poors. Fonti sindacali riferiscono di un 85% di consensi da parte delle organizzazioni sindacali aderenti alla CES, con riserve limitate ai sindacati dei paesi nordici.
Le organizzazioni datoriali, in primis Business Europe, hanno mantenuto una contrarietà al ricorso allo strumento direttiva ritenendo accettabile solo la forma raccomandazione. È peraltro significativo che le due maggiori organizzazioni industriali di Italia e Francia non hanno manifestato contrarietà pregiudiziale, ma avanzato riserve e obiezioni specifiche di merito. Su questa base la commissione ha ritenuto di poter procedere; e al fine di raccogliere ulteriori elementi sui punti critici della proposta, ha avviato una ulteriore fase di consultazioni che presumibilmente occuperà buona parte o tutto il 2021.
Rinvio al mio scritto sopra ricordato per un’ analisi dei contenuti specifici della proposta, che contiene una serie di precisazioni dirette sia a superare le principali riserve avanzate dalle organizzazioni sindacali al primo testo sia a precisare le basi giuridiche della direttiva, invero oggetto di non poche controversie (testo in corso di pubblicazione su Dir. Rel Ind., 2021).
Mi soffermo su quella che mi sembra la novità principale per il contesto in cui il dibattito e le scelte sul salario minimo si presentano oggi nell’ordinamento italiano.
Il testo della Commissione europea, in coerenza con la dichiarata intenzione di rispettare le tradizioni degli ordinamenti nazionali, indica due percorsi diversi che riflettono le situazioni dei vari paesi, distinguendo il gruppo di stati membri (21) che ha già una legislazione sui minimi salariali, dai paesi (6) che invece affidano la fissazione di tali minimi alla contrattazione collettiva nazionale, pur con varianti legate alla storia dei singoli ordinamenti.
Per il primo gruppo di Stati la proposta indica alcune condizioni necessarie affinché i salari minimi legali siano fissati a livelli adeguati, specificando che questi devono essere determinati secondo criteri chiari e duraturi e che devono prevedere aggiornamenti periodici del loro ammontare, anche qui secondo criteri predeterminati
Inoltre si sottolinea che le procedure per la definizione dei minimi dovranno garantire un effettivo coinvolgimento delle parti sociali, come risulta dalle prassi comuni fra i paesi membri.
Queste indicazioni sono tutt’altro che formali, ma costituiscono elementi essenziali per sostenere la adeguatezza anche nel tempo dei minimi salariali e una loro rispondenza al contesto economico sociale dei vari ordinamenti quale valutato dai principali stakeholders.
I criteri e le misure proposte dalla commissione per rendere adeguato il salario minimo legale, che sono alquanto stringenti, non riguardano per ora il nostro paese che rientra nel ristretto gruppo di stati membri privi di salario minimo legale. Ma sarebbero rilevanti e non privi di incidenza qualora venisse approvato uno dei vari progetti di legge presentati in Parlamento che stabiliscono un salario minimo legale, sia pure con varianti (fra cui la precisazione, invero impropria, che questo si applicherebbe solo per i casi non coperti da contrattazione collettiva).
In particolare una questione particolarmente delicata da risolvere riguarderebbe il rapporto da stabilire fra la soglia del salario minimo legale e i livelli retributivi definiti nei contratti collettivi nazionali.
5. La proposta di direttiva lascia agli Stati membri di decidere quale strada fra le due indicate dalla Commissione sia la più adeguata secondo le tradizioni delle relazioni industriali del singolo paese.
Anche l’Italia è sollecitata a fare questa scelta, con la consapevolezza delle implicazioni e della posta in gioco.
Il giudizio sostanzialmente positivo dei sindacati europei, condiviso dalle maggiori confederazioni italiane e dalle rappresentanze delle associazioni presenti al Cnel, è motivato anzitutto dalla prevalenza riconosciuta dalla proposta della Commissione alla via contrattuale rispetto a quella legislativa per la fissazione dei salari minimi adeguati.
E’ stato rilevato criticamente che secondo la formulazione dell’art. 4 della proposta di direttiva, la adeguatezza del salario, quando questo è fissato dai contratti collettivi, viene data per acquisita. Lo conferma il fatto che nel testo della norma non si fa alcun cenno al criterio della adeguatezza e del modo di rispettarlo, neppure per tenere conto della indicizzazione; si dà rilievo solo al grado di copertura dei contratti collettivi (il 70%) ritenuto necessario e sufficiente a garantire ai lavoratori una tutela abbastanza ampia per contrastare la diffusione dei bassi salari.
Questo è un punto della proposta che solleva dubbi sulla sua congruenza rispetto all’obiettivo di sostenere livelli salariali adeguati. Tanto è vero che ha già sollevato obiezioni in dottrina e che potrebbe esporsi a richieste di integrazione nel corso delle future consultazioni.
In realtà la valorizzazione comune ai nostri ordinamenti, della autonomia collettiva come fonte privilegiata di regolazione delle condizioni di lavoro e della retribuzione, non equivale a una sottrazione da ogni giudizio sulla adeguatezza dei suoi prodotti. Essa si basa essenzialmente sul riconoscimento della rappresentatività degli agenti negoziali e quindi sulla loro idoneità a esprimere in modo efficace (e democratico) gli interessi dei lavoratori coinvolti nella contrattazione.
Infatti è su questo aspetto che gli ordinamenti nazionali hanno esercitato il loro controllo, sia pure con modalità e per aspetti diversi.
Su presupposti simili la nostra giurisprudenza ex art. 36 Cost. ha di norma fatto riferimento gli standard contrattuali per giudicare della adeguatezza delle retribuzioni, salvo segnalare, in casi particolarmente gravi, eventuali deviazioni.
Così gli ordinamenti europei che stabiliscono meccanismi di estensione generale dei contratti collettivi prevedono una verifica pubblica variamente configurata dei loro requisiti di rappresentatività e di consistenza. E la normativa italiana, pure in assenza di regole specifiche sulla rappresentatività degli attori negoziali, ha elaborato alcuni criteri per selezionare i sindacati (non ancora le parti datoriali) sulla base della loro capacità rappresentativa.
Questo è un punto della proposta di direttiva sottoposto a critica dalle organizzazioni sindacali italiane, e dal Cnel, che hanno rilevato come il riferimento alla contrattazione collettiva nazionale sia formulato in modo troppo indifferenziato, tale da comprendere anche contratti stipulati da organizzazioni non rappresentative di ambedue le parti.
La omissione risulta particolarmente grave a fronte della frammentazione verificatisi, non solo in Italia, nelle rappresentanze, oggi ancora più di parte datoriale che sul versante dei lavoratori. Ritengo anche io che questo aspetto della proposta meriti chiarimenti, anzitutto per condizionare il riferimento alla contrattazione collettiva al fatto che essa sia conclusa da organizzazioni di entrambe le parti negoziali dotate di rappresentatività accertata secondo le regole dei singoli ordinamenti.
6. Il criterio decisivo stabilito dalla Commissione europea per valutare la congruenza della garanzia contrattuale dei minimi salariali è dunque che i contratti nazionali abbiano un tasso di copertura effettivo del 70% dei lavoratori interessati, della categoria o del settore. La Commissione non specifica con quali strumenti tale tasso di copertura dovrebbe essere garantito. Si limita a fornire indicazioni “aperte”, in realtà generiche, lasciando la dialettica fra governo e parti sociali dei singoli Stati di individuare le soluzioni più adatte.
Una indicazione appena più precisa è quella che impone agli Stati ove la contrattazione non raggiunga la soglia di copertura del 70% di intraprendere azioni per definire “un quadro di condizioni favorevoli alla contrattazione collettiva”. Anche questa è una indicazione vaga e infatti da parte sindacale si è richiesto che i piani di azione finalizzati a rafforzare la copertura della contrattazione siano obbligatori e abbiano contenuti definiti.
Una richiesta più specifica avanzata dalla CES in fase di consultazione è stata quella che ritiene necessario prevedere forme di estensione per via amministrativa o legale dei contratti collettivi in questione.
La estensione erga omnes in effetti è la sola soluzione che garantisce la capacità del sistema contrattuale di fornire una garanzia dei minimi salariali equivalente a quella offerta dai minimi legali. La soglia del 70% di copertura contrattuale indicata dalla Commissione non realizza lo stesso risultato, ma è stata fissata, anche qui con evidente compromesso, in base alla ipotesi che una simile diffusione permetta comunque alla contrattazione di esercitare una influenza generale di innalzamento dei salari minimi.
Un punto di policy in ogni caso essenziale, come ricorda anche la relazione alla proposta di direttiva, è la necessità di prevedere strumenti atti a rafforzare la capacità negoziale delle parti sindacali. Un sostegno pubblico in tale direzione è oggi più che mai necessario, dato che questa capacità è da anni indebolita da un contesto economico e spesso politico non amico, se non ostile, all’azione collettiva.
Oltre a questo la proposta presenta un altro punto critico che va sottolineato. Mi riferisco al fatto che il riferimento al tasso di copertura media dei contratti nazionali per valutare la idoneità del sistema non è sufficiente e può essere fuorviante. Su questo punto è pertinente il riferimento della proposta al “livello settoriale o intersettoriale” dei contratti nazionali, perché la copertura dei contratti nei singoli settori può essere alquanto diseguale e non arrivare sempre alla soglia del 70%.
Sulla diffusione e sulla copertura dei contratti nazionali non esistono in Italia indicazioni complete, perché i nostri sistemi di rilevazione non sono ancora a regime. Ma già le informazioni disponibili confermano la esistenza di non poche disparità.
In particolare l’archivio dei contratti gestito dal CNEL, in collaborazione con l’INPS, contiene informazioni preziose che sono via via aggiornate. Da tali informazioni si rileva come il tasso di copertura dei contratti collettivi stipulati dalle parti sociali più rappresentative nei principali settori è in effetti alto e superiore alla soglia indicata dalla proposta di direttiva. Ma non è così per tutti i contratti e per tutti i settori.
I dati più recenti dell’archivio del CNEL riportati nel rapporto sul mercato del lavoro del 2020 segnalano che degli 856 contratti nazionali vigenti, un numero molto ridotto di questi regola la stragrande maggioranza dei rapporti di lavoro dipendenti. Più precisamente i 60 contratti prevalenti nei dodici settori per cui sono disponibili informazioni sui lavoratori coperti si applicano all’89% di tutti i lavoratori dipendenti; mentre i restanti 796 contratti risultano applicati solo all’11% della platea dei dipendenti.
Come si vede questo dato riduce in parte il grado di dispersione contrattuale; ma resta il fatto che esso conferma la esistenza di una notevole frammentazione del sistema. Il dato è preoccupante perché nei 796 contratti minori presumibilmente rientrano quelli a più elevato rischio di dumping salariale.
Tale rischio è confermato dalle rilevazioni ricordate prima le quali segnalano che in molti settori specie dei servizi non solo il tasso di copertura dei contratti collettivi è spesso inferiore, ma è anche alto il livello di evasione ed erosione degli stessi contratti.
Non si può dunque ritenere che il nostro sistema contrattuale soddisfi del tutto i requisiti richiesti dalla ipotesi di direttiva, né che l’Italia possa essere esentata dalla necessità di intraprendere i piani di azione sollecitati dalla Commissione per rafforzare la contrattazione collettiva nei settori critici.
La debolezza della contrattazione in alcuni settori, se non corretta, potrebbe richiedere un intervento legislativo, sia pure sperimentale e limitato a tali settori. Questa del resto è una indicazione già presente nella ultima legge delega italiana sul salario minimo (183/2014), ispirata alla intenzione di ridurre i rischi di una ingerenza dell’intervento nel sistema contrattuale.
In realtà quella formulazione vanificherebbe del tutto il significato della legge, in quanto è difficile individuare settori totalmente privi di una qualsiasi presenza contrattuale. Come ho già sostenuto altrove, sarebbe più appropriato riservare l’intervento sui minimi salariali a quei settori in cui fosse accertata la carenza di copertura contrattuale o un tasso di evasione tale da pregiudicare la effettività di questa.
Si tratta di un accertamento difficile ma non impossibile, che andrebbe condotto con un coinvolgimento delle parti interessate e con una certificazione ufficiale, del Ministero del lavoro o del CNEL.
Un intervento così limitato e verificato ridurrebbe grandemente il pericolo che la normativa introdotta incida negli equilibri della contrattazione e anzi ne accentuerete la capacità di sostegno all’ azione sindacale in questi settori deboli.
7. La proposta di direttiva europeaapre la possibilità di affrontare il problema secondo una nuova prospettiva “duale”. Le parti sociali italiane che, al pari della maggioranza dei sindacati europei, hanno mostrato di apprezzarla, hanno la opportunità di superare l’impasse storica che ha bloccato finora ogni iniziativa per rafforzare le garanzie circa la adeguatezza dei salari.
Se le nostre organizzazioni sindacali mantengono la contrarietà all’ introduzione di un salario minimo legale, nonostante le evidenze comparate non avvalorino i loro dubbi, dovrebbero attivarsi per dare seguito all’altro percorso indicato dalla Commissione europea.
Le iniziative da intraprendere sono duplici. Anzitutto dovrebbero sollecitare il governo a prendere azioni atte a creare, come richiama la Commissione, “un quadro di condizioni favorevoli alla contrattazione collettiva”. Ciò significa ricercare gli strumenti per una nuova legislazione di sostegno, diversi da quelli dello Statuto dei lavoratori, perché devono sorreggere debolezze degli attori collettivi diverse da quelle del 1970. Si tratta di una ricerca appena avviata, e che deve orientarsi in più direzioni (nota: “50 anni di Statuto e oltre”).
Il rafforzamento e la estensione dei diritti dei lavoratori, con la sanzione di una base comune di tutele per ogni forma di lavoro, restano una parte essenziale della legislazione di sostegno anche del sindacato. Ma resta da riscrivere anche la parte sindacale della normativa, sia precisando le regole fondamentali del sistema sia promuovendo condizioni di contesto economiche e sociali favorevoli, e non ostative quali sono spesso oggi prevalenti, all’attività sindacale e alla piena espressione della voce di lavoratori nell’ arena sociale e politica.
Sottolineo il fatto che questi strumenti di promozione del sindacato, per essere adeguati alle sfide del momento presente, non possono limitarsi all’ ambito delle imprese tanto meno delle grandi fabbriche, perché questo non è più l’unico terreno dove si confrontano oggi le forze sociali ed economiche e si determinano le condizioni da cui dipende l’esito.
Le politiche utili per promuovere l’azione collettiva e in generale la causa del lavoro devono misurarsi su obiettivi che tengano conto degli interessi di constituencies più ampie di quelli espressi dal lavoro dipendente e che sappiano interloquire con le istituzioni non solo negli ambiti lavoristici, ma in tutte le sfere pubbliche influenti sul lavoro e sulla occupazione.
Questo non è un terreno nuovo per il sindacato italiano, che ha tradizionalmente allargato la sua azione alle politiche economiche del paese e delle riforme sociali e ha esteso la propria partecipazione a molte istituzioni pubbliche nazionali e territoriali competenti in materia sociale. Ma le strategie e gli strumenti utilizzati in tali direzioni non hanno saputo rinnovarsi a sufficienza per fronteggiare le sfide che la evoluzione del contesto ha posto a queste istituzioni e per stimolare in senso riformatore le loro risposte alla crisi.
Per tornare al nostro tema specifico, se si vuole dare seguito alle ipotesi della Commissione di privilegiare la via contrattuale per la garanzia dei minimi salariali, è necessario rafforzare il sistema contrattuale prevedendo meccanismi per la estensione erga omnes dell’efficacia (almeno) della parte retributiva dei contratti collettivi nazionali. È significativo che questa prospettiva sia stata fatta propria dalle maggiori confederazioni sindacali.
Ma per procedere su questa strada occorre porne in atto i presupposti istituzionali, a cominciare dalla individuazione di criteri univoci e condivisi di rappresentatività di ambedue le parti negoziali.
La definizione di tali criteri è da tempo oggetto di discussione sia fra le stesse parti sia in Parlamento. Superare le esitazioni e le impasse per trovare consenso sociale e politico su questo punto è una condizione essenziale per affrontare il tema dell’erga omnes; (anche) non è l’unica perché altre questioni delicate restano da risolvere, a cominciare dalla definizione degli ambiti entro i quali attribuire la efficacia dei singoli contratti nazionali di categoria o di settore.
Qui voglio richiamare l’attenzione su una questione specifica rilevante per il tema in esame. Se per seguire le indicazioni della Commissione europea si vuole intervenire (solo) nei settori dove la contrattazione non raggiunge la copertura effettiva del 70%, anche la efficacia erga omnes dovrebbe essere ritagliata su tali settori.
Una simile soluzione non trova ostacoli insormontabili (salvo appunto la individuazione degli ambiti contrattuali) e viene adottata in altri paesi.
Gli ordinamenti europei che prevedono meccanismi di estensione generale dei contratti collettivi procedono in modo selettivo; cioè tengono conto delle condizioni dei diversi settori e dei caratteri della contrattazione ad essi relativa, fra cui il grado di copertura che il contratto realizza per forza propria.
Si tratta di una forma di intervento adattabile alle diverse realtà produttive e sindacali e che risponde alle diverse funzioni del sostegno legislativo, fra cui quella di garantire la adeguatezza dei salari minimi di cui si occupa la proposta europea. La strumentazione del nostro art. 39 Cost. sembra invece prefigurare un meccanismo automatico di estensione; così è stata per lo più interpretata, ma non perché fossero impossibili letture diverse, piuttosto per la mancanza di approfondimenti specifici dato l’abbandono storico di questa normativa.
In conclusione mi sembra che ci siano buoni motivi per raccogliere lo stimolo della Commissione europea riprendendo la strada della erga omnes dei contratti collettivi nazionali; e si può farlo con una maggiore consapevolezza delle possibili soluzioni, come della nostra storia e dei suoi limiti.
Questa dell’ erga omnes è la strada che altri ordinamenti hanno perseguito da tempo, spesso prima di legiferare sui minimi salariali. Si tratta di una scelta prioritaria coerente con la nostra tradizione di relazioni industriali e con le indicazioni della Commissione europea, perché entrambe danno priorità alla via contrattuale su quella legislativa, senza dimenticare di sostenere la prima.
Perseguendo una simile opzione la garanzia che il nostro ordinamento offrirebbe ai lavoratori di avere minimi salariali adeguati non presenterebbe nessun rischio di incidere impropriamente sulle dinamiche della autonomia collettiva, ma anzi avrebbe il valore di contribuire al rafforzamento del sistema contrattuale nel suo complesso.
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