Nell' intervento si critica la scarsa attenzione che il welfare italiano riserva alla famiglia.
Grazie a Mario Napoli per l’invito, che fa sempre delle programmazioni molto ambiziose. Hai considerato tre temi ciascuno dei quali richiederebbe una settimana di convegni: lavoro, famiglia, welfare. Ricordare Marco Biagi in questo modo è utile, anche se quando lavoravamo insieme le nostre proposte erano molto carenti almeno in due di questi temi.
La famiglia è stata molto trascurata dalla normativa sul lavoro e ancora di più da quella sul welfare. Se penso a quanto si proponeva negli anni ’90, con ambizioni riformiste, non avevamo molto la prospettiva familiare dei vari istituti. Siamo tutti viziati da una logica lavoristico-centrica, centrata sulla figura del lavoratore fordista, maschio e adulto, che ha costituito per cent’anni il fondamento del diritto del lavoro e che ancora oggi costituisce il punto di riferimento principale del welfare.
In realtà con Biagi, e ancora nel dibattito di questi giorni, s’è fatto qualche tentativo di slegare il welfare, gli ammortizzatori in particolare, dall’aggancio al lavoro dipendente per muoversi nella direzione di un welfare più universale, che consideri almeno tutti i tipi di lavoro e di impresa. Non ancora universale in senso proprio, perché non si estendevano le tutele del reddito al cittadino bisognoso, e al lavoratore da lungo tempo lontano dal mercato del lavoro; chissà quando ci arriveremo.
La riforma disegnata dal prof. Onofri ai tempi del primo governo Prodi, proponeva un welfare riferito alle persone attive; non ai soli lavoratori dipendenti, ma anche ad altri tipi di lavoratori, e ai disoccupati in cerca di lavoro. In tal modo si pensava di correggere, almeno in parte, il pregiudizio fordista. Ma, come sapete, i progetti di allora sono rimasti sulla carta. Ora si sta cercando di liberare almeno in parte gli ammortizzatori da un vincolo stretto al lavoratore fordista, per estenderli ad altre forme di lavoro atipico e parasubordinato.
La famiglia però resta ancora trascurata, anche perché, viene considerata in sé un istituto di welfare: il che è una deformazione. Il cd. welfare mediterraneo è un modello maschilista, che scarica sulla famiglia gran parte dei compiti di cura sia dei bambini, sia adesso degli anziani non autosufficienti. Questi servizi di cura nel modello sociale europeo dovrebbero essere forniti dal pubblico o dal privato associativo, e non scaricati sulla famiglia, cioè sulla donna. L’allargamento del welfare proposto finora è in parte correttivo dell’impostazione tradizionale, m a non sul ruolo e i compiti della famiglia
In realtà lo stesso welfare è oggi in difficoltà, perché basato sul lavoro dipendente standard che è in crisi. Il motore del lavoro si è interrotto e ne risente anche il welfare. Il welfare è meno in crisi in quei sistemi dove è finanziato in parte con il fisco e tutti, o quasi tutti, pagano le tasse. I nostri tassi di evasione e di elusione fiscale sono intollerabili, e limitano anche le risorse disponibili per le politiche sociali. Il blocco del lavoro che crea difficoltà al welfare pesa soprattutto sui giovani, che ne sono largamente esclusi.
Il problema si aggraverà con il crescere degli anziani non autosufficienti. Si dovrà vedere se il costo del loro welfare potrà pesare ancora sul lavoro, ad es. prevedendo forme di contribuzione aggiuntiva sulle retribuzioni, o se si ricorrerà al fisco, come hanno fatto altri paesi.
Sono condivisibili le puntualizzazioni sulla famiglia, che propongono un’analisi secondo le funzioni svolte, contribuendo a svelenire il dibattito ideologico, che in Italia è più forte che altrove. Questo contesto di analisi conferma la inadeguatezza delle attuali politiche del lavoro ove la famiglia è trattata con interventi occasionali e di impostazione protettivo tradizionale, poco attivi e poco promozionali. Non per niente la legge sulle pari opportunità delle donne è tra le più disattese del nostro Paese. E la stessa contrattazione collettiva - qui Mario Napoli è più ottimista di me - è ancora largamente legata alla figura del maschio adulto lavoratore e poi pensionato.
Non ho sentito l’intervento di Rosina, ma basta considerare la quota di spesa sociale dedicata alle politiche familiari, così ridotta e al disotto della media europea, per vedere quanto tali politiche siano trascurate. La famiglia non è certo al centro del welfare. Lo rilevo perché mi devo occupare di questo tema anche in sede politica.
A fronte della sostanziale stasi delle politiche di conciliazione c’è un fiorire di proposte in materia fiscale; alcune molto ben articolate, come quella sul cd. fattore famiglia, opportunamente distinto dalle proposte del quoziente familiare. Ma si tratta di progetti ancora inattuati mentre si continua con politiche erratiche, come quelle sulle detrazioni fiscali.
Il quadro attuato di interventi frammentati, rende quasi impossibile capire accertare quale ne sia la “resa”. Poi i cambiamenti di linea ad ogni Governo, fra detrazioni e deduzioni, aumentano l’incertezza della direzione di marcia. Il che conferma come anche il fisco, che ha un ruolo importante, non consideri la famiglia in modo significativo e unitario.
La questione delle pensioni cd. di reversibilità è anch’essa emblematica. Questo tipo di pensione presuppone che la famiglia sia mantenuta dal breadwinner maschio, e che la donna sia confinata a compiti domestici; cosicchè quando il coniuge maschio muore la donna deve essere in qualche modo risarcita appunto con la pensione di reversibilità. Ma l’istituto è praticamente sconosciuto nei paesi dove c’è un’impostazione meno tradizionalista della famiglia e del ruolo della donna al suo interno.
Non voglio fornire un quadro troppo negativo. Ma abbiamo di fronte scelte decisive per adeguare il nostro sistema sociale, due in particolare: come dare centralità alle politiche familiari e come spostare l’asse del welfare in direzione universalistica e famigliare. La nostra Costituzione sul punto ha delle norme che sono datate, che si possono aggiornare in modo adeguato.
In realtà uno spartiacque significativo, come ha detto Mariella Magnani, è segnato dalla legge n. 53 del 2000 e dalla normativa sulle pari opportunità. Sono leggi fatte bene, ma sono state finanziate in modo del tutto insufficiente.
Faccio un’ultima osservazione, secondo me la più importante. Molti di noi hanno criticato il quoziente francese perché è applicato in modo da favorire i redditi alti; inoltre se non esistono servizi sufficienti e disponibili, tende a deprimere il tasso di occupazione femminile che da noi è già bassissimo. La versione cd. del fattore famiglia è una soluzione più equilibrata che valorizza l’unità di reddito della famiglia, ma corregge i difetti della regressività del quoziente familiare.
In alcune realtà locali si sta applicando già l’ISEE, tarato sul fattore famiglia. Questo è un buon modo di cominciare, perché il reddito familiare deve essere considerato nella complessità delle sue destinazioni. Se il costo dei servizi incide sul singolo come sulla famiglia, è chiaro che si discrimina la famiglia. Se si commensurassero le tariffe dei servizi sul fattore famiglia si favorirebbe un riequilibrio nella distribuzione dei redditi reali.
Un altro punto sul quale porre l’accento, anche per il suo valore culturale, riguarda la conciliazione-condivisione dei ruoli nella famiglia. Non uso il solo termine “conciliazione”, perché non si tratta di conciliare lavoro “esterno” con quello di cura della famiglia, sempre in capo alla donna. La conciliazione si deve accompagnare con una ripartizione più equilibrata dei compiti nella famiglia.
La conciliazione e condivisione riguardano servizi, ruoli e tempi di lavoro.
Dalle ultime rilevazioni risulta che i maschi italiani lavorano fuori casa più delle medie europee, mentre contribuiscono meno al lavoro familiare.
La questione degli orari di lavoro si lega all’organizzazione del lavoro, che spesso è standard e troppo rigida. Questo conferma la tesi che il maschio lavora spesso troppo e male, mentre la donna lavora troppo a casa. La conciliazione e condivisione costituiscono strumenti per il superamento della concezione tradizionale del lavoro e dei ruoli familiari.
In tal senso anche l’istituto dei congedi cui si è qui accennato, è fondamentale. I congedi, ragionevolmente lunghi, non necessariamente legati alla maternità, e pagati in modo adeguato e paritario, sono decisivi per rompere gli schemi tradizionali di lavoro e di vita. E’ tutto quello che possono fare il diritto e la politica per cambiare tali schemi. La condivisione dei ruoli non si può imporre; richiede un mutamento culturale profondo. La flessibilità dei tempi di lavoro e il part time possono essere utili, ma a condizione che la scelta del tempo flessibile sia negoziata e accettata.
Valorizzare la famiglia come centro di sviluppo delle persone e non soltanto come istituto di welfare richiede interventi ulteriori su piani diversi, qui accennati: da un fisco a misura di famiglia, a servizi di cura accessibili, a politiche sociali ed educative coerenti con questo obiettivo.
In tempo di risorse scarse la rimodulazione dei tempi ha il vantaggio che non richiede spese dirette ma adeguate innovazioni organizzative. Nei Paesi nordici, con una tradizione di welfare ricco, esiste un utilizzo estensivo della modulazione dei tempi di lavoro e di vita orientata al benessere delle persone e al miglioramento del clima aziendale.
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