L'articolo del professor Tiziano Treu esplora le speranze e le delusioni legate alla direttiva europea sul salario minimo adeguato, approvata il 19 ottobre 2022, evidenziando le difficoltà politiche e sociali nella sua attuazione
1) Le speranze (deluse) della direttiva europea
La approvazione della direttiva europea sul salario minimo adeguato del 19 ottobre 2022, doveva
servire a superare l’impasse e le divisioni, che hanno impedito finora la introduzione di questo
istituto, presente nella maggioranza degli stati membri, anche nel nostro paese.
Così avevamo pensato in molti, me compreso. Ma a giudicare dalle recenti posizioni delle parti
politiche e sociali, non sembra che questa ipotesi, o speranza, possa realizzarsi. Anche perché la
direttiva non fornisce elementi stringenti per indirizzare le scelte degli stati membri in questa
difficile questione.
Che il problema del salario minimo sia alquanto controverso, lo testimonia l’iter di approvazione
della direttiva, particolarmente lungo e travagliato, non solo per la incertezza delle basi giuridiche
su cui essa doveva poggiarsi, ma per la forte contrarietà delle organizzazioni sindacali, e datoriali
di alcuni paesi, fra cui l’Italia, a seguire la strada della legislazione sui minimi salariali già adottata
dalla maggioranza dei paesi.
Per superare tali resistenze la proposta della Commissione ha dovuto seguire una strada tortuosa
non priva di ambiguità, che ha influito sulla soluzione finale. Anzitutto la commissione ha dovuto
precisare i limiti del proprio intervento indicando subito che non intendeva ne armonizzare i
livelli di salario minimo in Europa e neppure stabilire un meccanismo uniforme per fissare tali
minimi.
Questa è una precisazione necessaria per superare le obiezioni relative ai limiti di competenza
della Unione, ma che segnala i limiti degli obiettivi e della possibile incidenza della proposta
in ordine alla salvaguardia dei minimi salariali offerta ai lavoratori europei.
A tale precisazione la presidente Von der Leyen aggiungeva che “i salari minimi dovrebbero
essere fissati nel rispetto delle tradizioni nazionali per mezzo di contratti collettivi o di
disposizione giuridiche”.
Questa affermazione iniziale della Commissione conteneva già l’indicazione, poi tradottasi nel
testo, che la iniziativa europea doveva lasciare alle normative nazionali ampi margini di flessibilità
e di scelta su come intervenire nella individuazione degli standard salariali minimi e negli
strumenti per stabilirli.
L’attenzione della Commissione a evitare invasione nei poteri statali ed eccessive rigidità è
segnalata dalla stessa terminologia adottata, che indica come obiettivo non la uniformità, ma
la adeguatezza delle retribuzioni. Si tratta di una indicazione aperta, per cui i contenuti concreti
della adeguatezza non potranno che risentire delle condizioni economiche e sociali dei diversi
paesi, come in effetti risulta già dalle grandi variazioni dei salari legali minimi adottati dagli Stati
membri
.
2) Il difficile equilibrio giuridico e politico della direttiva: due percorsi suggeriti
È per dare seguito a tali orientamenti e preoccupazioni che il testo finale della direttiva indica due
percorsi attuativi diversi rispondenti alle situazioni dei vari paesi, distinguendo il gruppo dei paesi
(21) che ha già una legislazione sui minimi salariali, dai paesi (6) che invece affidano la fissazione
dei salari e quindi anche dei minimi alla contrattazione collettiva nazionale, pur con varianti legate
alla storia dei singoli ordinamenti.
I due percorsi indicati dalla direttiva sono presentati come fra loro alternativi. Ma in realtà così
non è perché le soluzioni cui danno luogo hanno funzioni e strumentazioni diverse. E’ bene
ribadirlo perché il dibattito in corso non sembra prenderne atto nè forse averne piena
consapevolezza.
Il salario minimo legale nella versione prevalente adottata in Europa serve a garantire una base
retributiva uniforme ai lavoratori di tutti i settori produttivi al fine di proteggerli in egual
misura dalla povertà. Il rafforzamento delle retribuzioni stabilite dai contratti collettivi,
tipicamente con strumenti di estensione erga omnes della loro efficacia, garantisce trattamenti
salariali corrispondenti ai diversi equilibri contrattuali esistenti nei diversi settori.
La differenza degli strumenti ha anche conseguenze quantitative, perché le analisi comparate
indicano che i salari minimi fissati dalla contrattazione risultano mediamente più alti di quelli
fissati dal salario minimo legale. La scelta adottata dalla proposta di proporre le proposte
come alternative ha carattere tattico, in quanto mira a rispondere alle diverse tradizioni di
relazioni sindacali, e quindi di sensibilità, prevalenti nei vari paesi su questa delicata questione.
Tale differenza fra gli strumenti rende improprie le comparazioni fra la soglia del salario
minimo legale e i livelli delle (diverse) retribuzioni contrattuali, specie se definite alle medie.
Semmai il confronto va fatto fra salario minimo legale e livelli minimi stabiliti dai contratti
collettivi per le qualifiche più basse.
In ogni caso si ricorda che i due strumenti – minimi per legge ed estensione dei minimi
contrattuali - sono di fatto compresenti in alcuni paesi (Germania, Francia, Spagna) sia pure con
modalità e distribuzione diversa fra settori.
Analogamente il recente ddl (AC 1275), presentato il 4 luglio 2023 da deputati dei partiti di
opposizione all’ attuale governo, indica i contratti collettivi nazionali come fonte per la
determinazione dei salari minimi, e nel contempo prevede che in ogni caso debba rispettarsi un
livello salariale minimo fissato per legge in 9 euro orari.
La scelta di indicare più opzioni all’interno di una direttiva non è priva di precedenti, perché si
ritrova ad es. nella direttiva sulla SE che ha proposto modelli diversi sia di struttura societaria
sia di partecipazione dei lavoratori all’interno di questa.
Ma nel caso in esame tale scelta si accompagna con una evidente debolezza delle indicazioni del
testo relativamente alla determinazione dei minimi salariali adeguati.
Le procedure previste per la determinazione dei minimi legali fissano in sostanza due requisiti:
il necessario coinvolgimento delle parti e un aggiornamento periodico dei minimi.
3) La genericità delle indicazioni sui livelli salariali minimi adeguati. Indicazioni di metodo.
Viceversa le indicazioni della direttiva sono alquanto generiche per quanto riguarda il punto
essenziale del livello quantitativo identificanti la adeguatezza del salario minimo.
Anche il linguaggio è significativo, in quanto si suggerisce che per valutare tale adeguatezza gli
Stati membri potrebbero scegliere tra gli indicatori comunemente impiegati in sede internazionale
quali il rapporto fra il salario minimo lordo e il 60% del salario lordo mediano e il rapporto fra il
salario minimo lordo 50% del salario lordo medio, o il rapporto fra salario minimo netto e il 50%
o 60% del salario netto medio.
La valutazione potrebbe inoltre basarsi su valori di riferimento associati a indicatori utilizzati a
livello nazionale come il confronto fra il salario minimo netto e la soglia di povertà e il potere di
acquisto dei salari minimi (considerando 28).
Mi limito a notare che si tratta di indicazioni fra loro eterogenee. In particolare lo sono quelle che
rinviano ai salari medi o mediani rispetto a quelle che rinviano alla soglia di povertà.
In ogni caso la forchetta del 50 - 60% fra diversi livelli salariali lascia ampia discrezionalità di
scelta agli Stati membri. Eppure la direttiva non manca di rilevare la necessità che la tutela
garantita dal salario minimo sia adeguata, osservando criticamente che “nel 2018 in nove Stati
membri il salario minimo legale non costituiva per un singolo lavoratore che lo percepiva un
reddito sufficiente a superare la soglia di rischio di povertà.
Una importante indicazione di metodo fornita dalla direttiva riguarda la opportunità/necessità -
di prevedere norme e procedure solide e prassi efficaci per la determinazione e l’aggiornamento
dei salari minimi legali.
Oltre a criteri volti a orientare gli stati membri nella determinazione e aggiornamento dei minimi
salariali, di cui si è detto, si menziona la previsione di organismi consultivi e il coinvolgimento
tempestivo ed efficace delle parti sociali in tale determinazione e aggiornamento, compresi
meccanismi di indicizzazione automatica.
Il testo aggiunge che riconoscere alle parti la possibilità di fornire pareri e di ricevere una risposta
motivata prima della adozione di qualsiasi decisione, potrebbe contribuire a un adeguato
coinvolgimento delle parti sociali nel processo (considerando 26).
Tale indicazione corrisponde alla prassi utilizzata da vari Stati membri di affidare la elaborazione
dei dati e le proposte per la istituzione e l’aggiornamento del salario minimo legale a commissioni
apposite composte di esperti e di rappresentanti delle parti sociali. Un simile strumento
permetterebbe una adeguata istruttoria tecnica degli elementi oggettivi di valutazione su cui
basare le scelte sul livello adeguato dei minimi salariali e contribuirebbe a sottrarre il tema dalle
contingenze del ciclo elettorale.
Simili forme di preparazione partecipata e istituzionalizzata di testi normativi non sono comuni
alla nostra esperienza. Non a caso nessuno dei tanti progetti di legge succedutesi in argomento
ne ha previsto la costituzione e l’utilizzo ai fini della determinazione dei salari da parte del decisore
pubblico.
Una eccezione importante è rappresentata dal gruppo di lavoro istituito presso il Ministero del
lavoro nel 2021 e presieduto da Andrea Garnero, che ha presentato un ampio rapporto sulla
povertà lavorativa in Italia, sulle sue cause e sui relativi rimedi, fra cui strumenti di garanzia legali
e contrattuali dei minimi salariali. Ma i risultati del rapporto non sembrano essere stati presi in
considerazione nel dibattito sul salario minimo né, a quanto mi risulta, da iniziative Parlamentari.
Su questa parte della direttiva, di cui mi sono occupato altrove, aggiungo solo una ulteriore
considerazione riguardante le implicazioni dei criteri della direttiva sulla forchetta dei livelli
salariali consigliati. Il riferimento ai dati Istat porterebbe a fissare in 7,10 euro il 50% del salario
medio e a 6,85 euro il 60% del salario mediano. Ma si tratta di dati del 2019 e quindi andrebbero
rivisti tenendo conto delle variazioni nelle retribuzioni (inflazione e rinnovi contrattuali)
intervenute in questi quattro anni, per cui la cifra dei 9 euro ritenuta indicata in vari disegni di
legge e ritenuta conforme alle indicazioni europee continua a essere oggetto di polemiche.
Il fatto è che applicare i criteri in questione nel nostro paese sconta la eterogeneità e parzialità
delle fonti statistiche sui livelli di retribuzione, nonché la pluralità di definizioni della retribuzione
nei diversi contratti collettivi.
Questo conferma la urgenza di rimediare a tale carenza, già rilevata in passato e ora ribadita dal
Cnel, individuando un’unica sede, partecipata da tutti gli attori istituzionali interessati, che
permetta di utilizzare una base dati documentata e condivisa.
Disporre di una simile base contribuirebbe a dare attendibilità delle decisioni, sottraendole all’
arbitrio, alle incertezze che purtroppo stanno caratterizzando non da oggi il dibattito sul tema.
Se inoltre le analisi e gli argomenti per fissare i livelli adeguati dei minimi si confrontassero, come
è necessario, con le esperienze internazionali, potrebbero verificare che non esistono evidenze
significative che la fissazione di un salario minimo ex lege debitamente costruito comporti una
riduzione dell’ ambito di copertura e di efficacia della contrattazione collettiva; anzi potrebbero
addurre argomenti nel senso che un simile salario minimo legale può contribuire a sostenere la
contrattazione dei settori marginali, oltre che a contrastare i bassi salari.
4) La via contrattuale al salario minimo: una normativa soft
La debolezza delle indicazioni della direttiva europea in tema di salario minimo legale si riproduce
e anzi risulta più evidente nella parte riguardante la “via contrattuale al salario minimo“.
Il giudizio sostanzialmente positivo dei sindacati europei, condiviso dalle maggiori confederazioni
italiane, è motivato anzitutto dalla prevalenza riconosciuta dalla proposta della Commissione alla
via contrattuale rispetto a quella legislativa per la fissazione dei salari minimi adeguati.
Ma è stato rilevato criticamente che secondo la formulazione dell’art. 4 la adeguatezza del salario
quando questo è fissato dai contratti collettivi viene data per acquisita. Lo conferma il fatto che
nel testo della norma non si fa alcun cenno al criterio della adeguatezza da affrontare con
procedure, neppure per tenere conto della indicizzazione, ma invece solo a un grado di copertura
dei contratti collettivi (il 70%) ritenuto necessario e sufficiente a garantire una tutela abbastanza
ampia per contrastare la diffusione dei bassi salari.
Questo è un punto della proposta che solleva dubbi sulla sua congruenza rispetto all’obiettivo di
sostenere un salario adeguato.
In realtà la valorizzazione, comune ai nostri ordinamenti, della autonomia collettiva come fonte
privilegiata di regolazione delle condizioni di lavoro e della retribuzione, non equivale a una
sottrazione da ogni giudizio sulla adeguatezza dei suoi prodotti. Ma si basa essenzialmente sul
riconoscimento della rappresentatività degli agenti negoziali e quindi sulla loro idoneità a
esprimere in modo efficace e democratico gli interessi dei lavoratori coinvolti nella
contrattazione.
Anche la soglia dell”80% di copertura dei contratti collettivi fissata dalla direttiva come
condizione di garanzia dei minimi salariali ha sollevato perplessità. Tale indicazione è stata
adottata con evidente compromesso in base alla ipotesi che una tale diffusione permetterebbe
alla contrattazione di esercitare indirettamente una influenza sufficiente sull’intero spettro della
categoria interessata e quindi di garantire in generale la adeguatezza dei salari.
Peraltro il sindacato europeo (CES) ha avanzato, in fase di consultazione con la Commissione, la
richiesta che venisse prevista la necessità di forme di estensione per via amministrativa o
legislativa dei contratti collettivi in questione, in quanto unica soluzione che garantisce la capacità
del sistema contrattuale di fornire una garanzia dei minimi salariali equivalente a quella offerta dai
minimi legali.
Ma la richiesta non ha avuto seguito e quindi la versione finale della direttiva si limita a prevedere
che gli Stati membri si adoperino per rafforzare il sistema contrattuale, definendo condizioni
favorevoli alla contrattazione collettiva e in particolare redigendo un piano di azione atto a
promuoverla.
Per questo motivo mi sembra di poter sostenere che ambedue i percorsi prescelti, quello
contrattuale ancora più di quello legale, presentano caratteri più vicini alla soft law, spesso usata in
passato dalla commissione, che a una vera e propria normativa cogente, cioè che si tratti di una
raccomandazione piuttosto che di una vera direttiva.
A parte le qualificazioni giuridiche, certo è che la vaghezza delle indicazioni europee affida
pressoché in toto alla responsabilità gli Stati membri di definire gli interventi a garanzia /sostegno
dei minimi salariali.
5) Implicazioni per l’Italia: interventi selettivi sui settori a maggior richiamo di dumping salariale
In ogni caso ritengo utile precisare alcuni punti critici riguardanti i contenuti e le condizioni di
applicazione della direttiva soft in questione, punti che continuano ad essere trascurati nel
dibattito sul tema.
Anzitutto continuo a ritenere che il riferimento al tasso medio di copertura dei contratti nazionali
per valutare la idoneità del sistema a garantire salari adeguati non è sufficiente e anzi può essere
fuorviante. Infatti il grado di copertura dei contratti nazionali può essere alquanto diseguale nei
vari settori e non arrivare alla soglia dell’80% specie nei settori più fragili dove la garanzia del
salario minimo sarebbe più necessaria.
Tale diversità di situazioni contrattuali risulta dall’ archivio dei contratti nazionali gestito dal Cnel,
ove si mostra come il tasso di copertura dei contratti nazionali nei principali settori della
manifattura sia in effetti superiore alla soglia indicata dalla direttiva, ma come non sia così per
tutti i contratti in tutti i settori.
L’archivio conferma che, al di là dei numeri dei contratti alquanto variabile ma in crescita, esiste
una notevole frammentazione del sistema contrattuale con conseguente rischio di dispersione
anche retributiva.
Il dato è preoccupante perché nelle centinaia di contratti cd minori presumibilmente rientrano
quelli a più elevato rischio di dumping contrattuale e salariale. Questo vale soprattutto per alcuni
settori dei servizi (vigilanza privata, ristorazione, logistica, servizi di cura alla persona) indicati damolte fonti come quelli dove si concentrano i bassi salari e dove sono più presenti contratti
conclusi da associazioni sindacali e datoriali di non accertata e dubbia rappresentatività.
Questa è la situazione riscontrata anche in altri Paesi (da ultimo la Germania), ove ha sollecitato
interventi sia sul salario minimo legale sia di estensione erga omnes della contrattazione collettiva,
non generalizzati, ma concentrati su settori economicamente e sindacalmente deboli dove era
comprovato che la contrattazione non arrivava da sola a garantire adeguata protezione.
Un intervento così mirato ridurrebbe il rischio di interferenze negli equilibri della contrattazione
e anzi ne accentuerebbe la capacità di sostegno alla azione sindacale nei settori deboli.
A favore di questo sostegno selettivo alla contrattazione si può addurre anche il riferimento
testuale della direttiva al ”livello settoriale o intersettoriale“ dei contratti nazionali. Tale
riferimento è del resto conforme alla struttura prevalente nei sistemi di contrattazione della
Europa continentale che attribuisce la fissazione dei livelli salariali al livello categoriale o settoriali
della contrattazione.
Per questo ritengo che l’obiettivo perseguito dalla direttiva europea di realizzare un contrasto ai
bassi salari imponga di tener conto di queste differenze, al fine di indirizzare gli interventi nei
settori ove il sostegno e più necessario, o per la presenza di contratti non rappresentativi o per la
presenza di un tasso di evasione e di erosione dei contratti sia così alta da pregiudicare la effettiva
incidenza e tutela dei contratti sui salari.
6) Garantire l’effettività delle tutele in tutti i settori: vincolatività dei salari contrattuali per contrastare l’ evasione
Questa ultima situazione va sottolineata perché non viene di solito considerata, anzi è del tutto
assente nelle analisi della questione. Ma, ancora una volta, se l’obiettivo della direttiva è di
garantire il rispetto di salari dignitosi, non ci si può accontentare del tasso di copertura formale
dei contratti e non considerare se a questo corrisponda la loro effettiva applicazione e quindi la
effettiva tutela del salario e delle condizioni di lavoro.
La necessità di guardare alla effettività delle tutele e di contrastare la inosservanza delle regole che
colpisce in particolare i soggetti deboli, i lavoratori atipici e alcuni settori dei servizi, è sottolineata
dalla direttiva europea (considerando 14).
Anche in Italia le ricerche ISTAT e Eurostat indicano che in alcuni settori specie dei servizi,
quelli già sopra indicati, oltre che nell‘agricoltura, il tasso di evasione /erosione delle regole
contrattuali è consistente, arrivando a punte di oltre il 20%.
Queste rilevazioni risalgono al periodo pre-pandemia e si può presumere che i dati segnalati si
siano aggravati a seguito della crisi Covid. Tanto più che le determinanti delle situazioni ove si
concentrano i bassi salari sono strutturali, legati ai bassi livelli di produttività di molti settori, alla
dimensione delle imprese e ora al declinante potere contrattuale dei sindacati.
Ma oltre a questi fattori strutturali pesa il fatto che i nostri contratti collettivi hanno natura
privatistica e quindi non solo vincolano esclusivamente i firmatari, ma possono essere disattesi
senza che il datore incorra in nessuna sanzione. Inoltre niente osta a che il datore di lavoro dichiari
all’INPS di riferirsi a un contratto collettivo e poi di fatto lo applichi solo in parte o ne applichi
un altro più favorevole.
Per reagire a queste prassi illegali è possibile solo il ricorso del singolo lavoratore al giudice, con
le difficoltà del caso. Peraltro, come dirò subito, si stanno moltiplicando le sentenze in cui i giudici
dopo anni che si sono riferiti ai contratti collettivi per identificare la giusta retribuzione secondo
l’ art 36 Cost., cominciano a dubitare della affidabilità di questo parametro, invalidando tariffe
contrattuali ritenute inadeguate alla stregua dei principi costituzionali.
Per questo, se si vuole seguire la via contrattuale al salario minimo senza vanificarla, occorre dare
forza vincolante alle tabelle dei contratti, come avviene in altri paesi, nelle modalità che vanno
discusse, ma che sono ampiamente esplorate dai giuristi.
Un piano di azione come quello auspicato dalla direttiva, che miri a rafforzare le condizioni di
agibilità e di funzionamento della contrattazione collettiva, è sicuramente utile per sostenerne le
debolezze aggravatesi negli ultimi anni, come si riscontra dai gravi ritardi nei rinnovi contrattuali,
dalla scarsa innovazione dei contenuti e dalla perdita del potere di acquisto dei salari contrattati.
Ma questi interventi, pur necessari, non incidono sul problema specifico della effettività della
garanzia contrattuale sulla retribuzione e non escludono che questa debba essere garantita con
strumenti adeguati, cioè con qualche forma di erga omnes salariale.
7) Criteri certi per la rappresentatività degli agenti negoziali e per i perimetri contrattuali
Fra i requisiti richiesti per garantire la effettività del sistema contrattuale vanno ricordati quelli
attinenti alla rappresentatività dei soggetti negoziali, dalla parte sia dei lavoratori che dei datori di
lavoro, perché sono rilevanti più di quanto non si avverta anche per la questione qui in esame.
I criteri finora utilizzati sono incerti e di difficile applicazione, come mostrano le oscillanti
decisioni della giurisprudenza chiamati ad esprimersi in proposito e le difficolta incontrate dalla
stessa Presidenza del Consiglio nella selezione delle organizzazioni titolate a designare i consiglieri
del Cnel.
Se finora si è ritenuto di poter convivere con tale situazione di incertezza, confidando nelle regole
concordate fra le grandi organizzazioni di vertice (specie nel TU 10 gennaio 2014 sulla
rappresentatività), ora le controindicazioni stanno crescendo e indebolisce la affidabilità del
sistema, perché la mancanza di tali regole legittima la presenza in tutte le sedi, sia istituzionali sia
contrattuali, di ogni genere di organizzazioni, a prescindere dalla loro consistenza e qualità.
Sul piano istituzionale questo inquina il dialogo sociale e ne può distorcere i risultati; nella
contrattazione collettiva introduce elementi di concorrenza sleale che indebolisce (ulteriormente)
le organizzazioni rappresentative e può spingerle ad accettare negoziati al ribasso, come in effetti
si è verificato.
Un fattore di incertezza che sta destabilizzando i rapporti contrattuali e alimentando contese fra
le stesse organizzazioni rappresentative, è la accresciuta variabilità dei perimetri entro cui
misurare la rappresentatività delle varie organizzazioni, in primis datoriali, ai fini contrattuali, e di
conseguenza definire i loro ambiti d’azione.
Dell’argomento mi sono occupato altrove indicando sia le soluzioni sperimentate in altri paesi,
sia la importanza del criterio previsto nel cd. Patto della fabbrica del 2018, che fa riferimento
alla “reale attività svolta dall’impresa come criterio oggettivo di individuazione delle categorie
contrattuali. Una indicazione simile che conferma e rafforza il criterio del Patto per la fabbrica,
proviene dal Codice degli appalti (dlgs 50/2016, art. 30, co 4), confermato dal più recente dlgs
36/2023, art. 57.
Questa norma modifica il quadro ordinamentale facendo entrare (o meglio rientrare) la
categoria oggettiva nel sistema contrattuale italiano.
Tale indicazione, pur limitata all’applicazione degli appalti pubblici, segna una indicazione di
policy in grado di estendersi, se non altro per l’importanza qualitativa di tali appalti, ora esaltato
dalle risorse del PNRR.
In ogni caso potrebbe stimolare progressi anche nella definizione consensuale dei perimetri
utili a identificare gli ambiti contrattuali, riducendo così gli ostacoli (o gli alibi) alla
individuazione dei criteri di rappresentatività degli attori.
8) Intervento dei giudici: sfiducia nella contrattazione collettiva
Le criticità del nostro sistema contrattuale sono messe in luce ed enfatizzate da due recenti
sentenze della Corte di cassazione (27711 e 27769; del 2 ottobre 2023), che hanno invalidato le
tabelle di alcuni contratti collettivi ritenendole non rispettose delle indicazioni costituzionali sulla
retribuzione sufficiente e proporzionale. Si tratta di un segnale che deve preoccupare, perché, al
di là del merito delle due decisioni, che possono riguardare casi limite, segnala una crisi di
credibilità della contrattazione come autorità salariale.
Il rischio che si profila, da evitare, è che si diffonda la tendenza a far intervenire i giudici in una
questione critica come la determinazione dei minimi salariali. Il rischio è aggravato dal fatto che
secondo le sentenze citate il controllo del giudice potrebbe riguardare non solo i contenuti dei
contratti collettivi, ma anche provvedimenti legislativi riguardanti la fissazione dei salari, come
avviene anche tramite rinvio alle tabelle contrattuali (nel caso si trattava di lavoro in cooperativa).
Una simile conclusione prefigura l’attribuzione al giudice di una funzione di supplenza che invade
il compito della politica e delle parti sociali, cui spetta di definire gli assetti di interesse e il loro bilanciamento riguardanti la regolazione dei rapporti di lavoro.
Queste criticità e debolezze del sistema di rappresentanza collettiva rischiano di indebolire la
efficacia della via contrattuale al salario minimo e di rafforzare la esigenza di un intervento di
legge in materia. La consapevolezza di questa debolezza dei contratti collettivi, con la
conseguente venir meno della fiducia nelle scelte contrattuali, sembra stare alla base della scelta
del ddl dei parlamentari dell’opposizione, che infatti prevede non solo la estensione dei minimi
contrattuali, ma anche un livello minimo di salario fissato ex legge sotto il quale (neppure) i livelli
salariali dei contratti collettivi possono scendere.
9) Superare il blocco decisionale
Se si vuole evitare questo rischio occorre cogliere il campanello d’allarme delle due sentenze e
affrontare nel merito le questioni sollevate dalla direttiva, superando l’ impasse ormai pluriennale
che blocca ogni decisione.
Come accennavo all’inizio le prospettive non sono molto favorevoli, perché le contrapposizioni
fra le parti politiche e sindacali che hanno finora ostacolato la ricerca di soluzioni condivise ed
efficaci non sembrano superate.
Una parte delle associazioni sindacali e datoriali, e ora le forze politiche di maggioranza,
esprimono la (storica) contrarietà all’Intervento legislativo in materia e sembrano in grado di
escluderlo. Ma, giusta gli argomenti sopra svolti, non forniscono alla via contrattuale strumenti
sufficienti per rendere effettiva la tutela contro i bassi salari, in particolare nei settori e per i gruppi
più bisognosi di protezione.
Nè il dibattito in corso fornisce sostanziali novità, perché riproduce argomenti che si reiterano
da anni, compresi quelli che allargano (e spostano) le analisi a tematiche generali riguardante la
dinamica della produttività e dei salari nel nostro paese.
È vero che il fenomeno dei bassi salari ha ragioni complesse che attengono alla precarietà, alla
scarsa qualità di molti lavori e a monte alle debolezze strutturali della nostra economia e delle
relazioni industriali. Per cui è ampiamente riconosciuto che il salario minimo non può ritenersi
uno strumento sufficiente per contrastare la povertà e neppure la povertà nel lavoro.
Ma ciò non toglie che l’importanza di istruire un sistema di salari minimi sia indicato da molte
analisi internazionali, dai documenti dell’OIL e dalla direttiva europea in esame.
Qui il considerando 9 afferma che “il ruolo dei salari minimi adeguati nella protezione dei
lavoratori a basso salario è particolarmente importante (specie) nei periodi di contrazioni
economiche”, ed “è essenziale per favorire una ripresa economica sostenibile e inclusiva
che dovrebbe condurre a un aumento della occupazione di qualità”.
Per questo la sollecitazione pur blanda della direttiva a dare risposta al fenomeno dei bassi salari
dovrebbe essere raccolta anche in Italia, senza che questo impedisca di allargare le analisi e i
rimedi alle condizioni generali che incidono negativamente sulla qualità del lavoro e sulle
dinamiche salariali. non servono risposte evasive, nè tanto meno rassegnarsi al protrarsi del nulla
di fatto.
10) Regole sui fondamentali delle relazioni industriali
Fra queste condizioni voglio dedicare un cenno finale a un problema ricorrente nel dibattito sul
lavoro e sui salari, ma ancora irrisolto e anzi spesso rimosso. Mi riferisco alla mancanza di regole che ha “decostituzionalizzato“ il nostro sistema di relazioni
sindacali e alle sue conseguenze negative anche sulla questione in esame.
Se la debole istituzionalizzazione dell’ ordinamento sindacale ha avuto il merito di tenere insieme
le relazioni fra le parti sociali in periodi di forti tensioni, tale anomia regolativa ha contribuito a
indebolire la efficacia del sistema: una debolezza riscontrabile per vari aspetti, nella scarsa e
diseguale dinamica salariale, nella crescita delle diseguaglianze anche nel mondo del lavoro, e nei
dualismi del mercato del lavoro che una contrattazione debole ed essa stessa diseguale non ha
saputo contrastare.
Siamo tutti consapevoli che i fattori di debolezza del nostro sistema contrattuale sono strutturali
e non possono quindi contrastarsi solo con norme giuridiche, sia di legge sia di contratto. Tuttavia
la mancanza di regole sui fondamentali del sistema, a cominciare dalla rappresentatività degli
attori, indebolisce il sistema dall’interno, acuisce le tensioni già presenti in un mercato del lavoro
frammentato, favorisce le spinte centrifughe e le difficoltà di attivare processi aggregativi fra
gruppi e categorie di lavoratori, alimenta concorrenza al ribasso e “guerre fra poveri“.
Per questi motivi anche i più convinti sostenitori dell’autonomia collettiva dovrebbero
interrogarsi se non sia il momento di abbandonare una indifferenziata diffidenza verso la legge e
di ricercare una normativa capace di sostenere le parti sociali nel difficile compito di rappresentare
efficacemente lavoratori e imprese nelle sfide poste dalla nuova economia digitale. Gli attori
sociali che si sono dimostrati in passato capaci di autoregolarsi in molti aspetti delle relazioni di
lavoro, non dovrebbero rassegnarsi all’immobilismo e alle divisioni interne che portano a una
incapacità decisionale sulle questioni centrali del futuro del lavoro.
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